Proust. Del buon uso della cattiva salute. Lettere di un malato immaginifico, a cura di Eusebio Trabucchi, L’orma 2022 (pp. 64, euro 7)
Il titolo ricalca quello della Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie di Pascal: “Tu mi hai dato la salute per servirTi, e io (sovente) ne ho fatto un uso tutto profano.
Mi mandi ora la malattia per correggermi: non permettere che io ne usi per irritarTi con la mia impazienza! (…) Fa che io mi auguri salute e vita soltanto per impiegarla e concluderla per Te, con Te, in Te!” Basta immaginare che il Tu cui il filosofo si rivolgeva non coincida con il Creatore ma sottintenda un’altra entità – la Scrittura – ed ecco trasparire, nel volto spigoloso e glabro dell’autore dei Pensieri,quello pallido e baffuto di Marcel Proust, autorelegatosi nella famosa camera dalle pareti foderate di sughero e dedito notte e giorno alla composizione della sua grande opera.
Insonne, tormentato da disturbi diversi, ma soprattutto da una forma grave di asma, già presentatasi nel bambino, cronicizzatasi nell’adulto, Proust – figlio e fratello di medici, nevroticamente attento ai propri sintomi – era consapevole che “Quando si è figli di medici, si finisce per diventarlo a propria volta” o addirittura per ritenersi “più medico dei medici” (autorizzato quindi a dispensare agli amici consigli di farmaci e cure). Di malattia e medicina, dunque, Proust parla spesso nelle sue lettere, alcune delle quali qui raccolte, oltre che naturalmente nella Recherche, dove non mancano affermazioni definitive: “Credere alla medicina sarebbe la suprema tra le follie se non ce ne fosse una ancora più grave, quella di non crederci”.
Malato, tuttavia, lui non lo era sempre stato: per anni era stato se mai affetto da “quella terribile malattia che la gente stupidamente chiama non avere niente”, per poi, in effetti, doversi convincere che “quando ci ammaliamo ci rendiamo conto di non vivere soli, ma incatenati a un essere d’un altro regno, da cui ci separa un abisso, che non ci conosce e dal quale è impossibile farci capire: il nostro corpo”. E suona come un espediente consolatorio, a quel punto, pensare che “Spesso è proprio il fardello di un animo troppo grande a piegare il corpo” e che “Stati nervosi e poesie incantevoli possono benissimo essere manifestazioni inscindibili”. Un nesso scontato, per altro, essendo quello “letterario” un lavoro che “chiama in causa di continuo emozioni legate alla sofferenza”.
Le lettere – ad amiche, a medici, alla “cara mammina” – testimoniano il progressivo abbandono delle occasioni mondane, cui pure insistentemente lo scrittore è invitato (“Credo che potrei persino guarire, se non ci fossero gli altri”), e la crescente preoccupazione di non aver le forze per proseguire e condurre in porto la sua opera: “Se solo potessi vivere abbastanza per veder realizzate le mie principali aspirazioni di mente e cuore! (…) sto portando a termine una lunga opera. Finché non sarà finita, credo sia più ragionevole non espormi al rischio di non riuscire a finirla”, anche se – lo scrittore ne è ben conscio – “l’approdo a quest’ultima pagina, con l’andazzo del malato che ho, potrebbe farsi attendere ancora diversi mesi, o forse più”. Era il 1910 quando Proust faceva questo pronostico: da quattro anni aveva cominciato a comporre la Recherche, che l’accompagnerà sino alla fine della sua vita, nel 1922, dopo oltre un decennio di solitudine, per molti aspetti imposta dalla malattia, certo, ma al tempo stesso deliberatamente scelta a partire dalla constatazione che “Il fato vuole che io non possa trarre giovamento se non da me stesso. (…) io sono me stesso soltanto quando sono da solo, e approfitto della compagnia degli altri soltanto nella misura in cui mi fanno scoprire qualcosa di nuovo su me stesso, sia quando mi fanno soffrire (quindi più per amore che per amicizia), sia con i loro difetti ridicoli (che in un amico non voglio vedere), difetti di cui non mi prendo gioco, ma che mi fanno comprendere i vari caratteri”.
Sono passaggi come questo a offrire spunti per entrare nella biografia di Marcel Proust, per dare una cornice all’impresa dello scrittore nel centenario della morte.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.