Vito Teti, La restanza, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 13)
“La nostalgia dell’altrove riguarda anche chi è rimasto e assiste alla fine del mondo in cui è nato”, “melanconico abitatore di un mondo da cui non si è mosso”, “nostalgico sognatore di un mondo che non conosce”: il ruolo attivo, progressivo, della nostalgia e la condizione di chi resta – la restanza appunto – come l’altra faccia di quella in cui si trova chi ha invece scelto la partenza e ha abbandonato il luogo in cui era nato e aveva vissuto. Le acquisizioni critiche che si sono lette nel precedente libro che l’antropologo calabrese aveva dedicato all’argomento (Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, in queste note nell’aprile 2021) si ritrovano in questo, come riferimenti di un unico discorso nel quale, oltre ai risultati della ricerca, entra la memoria autobiografica di un restante, quale Teti è: “La mia piccola esperienza locale è ricca di padri che partivano e di madri che restavano (…). Per me, ne ho coscienza chiara, da sempre partire e restare sono stati indissolubilmente legati”.
Ma il vissuto individuale non è che il corrispettivo – in un’ottica antropologica – di un destino universale: “Mi piace immaginare che, nella sua lunga storia, l’Homo sapiens sia stato sempre sospeso tra viaggio e sosta, appartenenza e sradicamento, necessità di spostarsi e desiderio di casa”. Una sospensione che si risolve in complementarità fra rimasti e partiti, gli uni e gli altri legati, seppure in modo diverso, alla loro terra. Perché “Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo il luoghi sognati e desiderati e siamo anche il luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato”.
Ad essere destituita di ogni fondamento è così la visione secondo la quale, in contrapposizione al partire, considerato “come un processo di ridefinizione costante della propria identità”, il restare “viene declassato ad una condizione naturale e non culturale con l’appendice di un automatismo esistenziale alla scelta rassegnata, al volontarismo della rinuncia, che quasi esclude l’interrogazione su di sé, l’inquietudine, il disagio, la curiosità”. Lungi dall’essere un non fare, una non scelta, quella di restare è invece un’opzione attiva, generatrice di sentimenti – per il testimone dell’abbandono e della perdita di identità dei luoghi – non meno laceranti della nostalgia dell’emigrante ma, anche, non meno fecondi di esperienze e quindi narrazioni. Lo ricordava Benjamin (“‘Chi viaggia, ha molto da raccontare’, dice il detto popolare, e concepisce il narratore come quello che viene da lontano. Ma altrettanto volentieri si ascolta colui che, vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra”), lo constata Teti: “Conosco persone che hanno viaggiato molto e non hanno ‘visto’ nulla. (…) Conosco persone rimaste ferme e che non si sono mai spostate dal luogo natio e che pure hanno contezza del mondo, e non solo di quello di appartenenza”. Ed è in questa consapevolezza che si manifesta “l’obbligo morale di non abbandonare il luogo natio, di non lasciarlo morire in solitudine, di vegliarlo, come si fa per una persona cara”, fino a custodirvi “segni, tracce, memorie per gli abitanti del futuro”, organizzando le proprie case “come musei della restanza, quasi dal loro impegno discendesse davvero una possibilità futura per l’abitato”. Una restanza che rima quindi con resistenza: ai processi di spopolamento, al degrado che ne consegue, all’indifferenza o all’inefficacia dei poteri pubblici, ma anche alla retorica della riscoperta dei luoghi incontaminati e dei piccoli borghi sull’onda di una nostalgia deteriore.
Scrittori e scrittrici (da Balzano a Di Pietrantonio ad Arminio) hanno offerto il loro contributo a questa resistenza, ma è soprattutto nelle nuove forme di restanza che i luoghi abbandonati o in via di abbandono possono intravedere un futuro, nel “movimento diffuso, spesso non coordinato, acefalo, che però comincia a collegare l’Italia dell’abbandono. Si tratta di pratiche e scelte di vita tese a costruire una nuova polis, un nuovo modo di abitare e organizzare spazi, economie, relazioni”. Scelte che si concretano nel riabitare questi luoghi, non semplicemente nell’operarvi interventi di riconversione edilizia destinati al mercato della seconda casa. “Non si prospetta – si badi – un improbabile ritorno al passato mitizzato del paese, ma si esprima la consapevolezza che le zone interne hanno un enorme capitale di risorse ambientali, paesaggistiche, culturali”.
“È certo che abbiamo bisogno – conclude l’autore – di una nuova attenzione ‘ecologica’ al mondo, che sia lontano, prossimo, dentro di noi; abbiamo bisogno di un nuovo senso della presenza e dell’abitare che ci consenta di ‘esserci ancora’. Il ‘restare’ (…) potrebbe allora essere vissuto come una pratica etica”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.