Susana Monsó, L’opossum di Schrödinger. Come vivono e percepiscono la morte gli animali, Ponte alle Grazie 2022 (pp. 272, euro 18)
Quasi ormai impossibile leggere che il possedere un’anima distingua gli uomini dagli animali, rara l’attribuzione della distinzione all’intelligenza, frequente quella al linguaggio, ma da qualche tempo diffuso, e dominante sulle altre si direbbe, la convinzione che a far la differenza sia la consapevolezza della morte, che disinvoltamente autori della più diversa estrazione, e sensibilità, si dichiarano pronti a negare negli animali non umani. Un po’ come può capitare, anche se meno frequentemente, di sentire che i vegetali non saprebbero di vivere, nonostante l’intelligenza in loro individuata da uno stuolo di botanici. Al di là della loro fondatezza, simili posizioni appaiono accomunate dall’incapacità di pensare che non esista altro modo di rapportarsi alla morte, e alla vita, che non sia il nostro.
Non solo a problematizzare, sostanzialmente a contrapporsi all’opinione diffusa, giunge questo libro, ma anche a dimostrare come porsi il quesito circa la percezione della morte da parte degli animali possa per certi aspetti aiutare gli umani stessi alle prese con la loro finitudine. A guidarci è una filosofa, specialista nella “filosofia della mente animale”, un settore di studio non da molto affermatosi in dialogo con la scienza, e in particolare con la “tanatologia comparata”. L’“identificazione e l’estirpazione delle tendenziosità antropocentriche alla base della ricerca” – non ultima l’“enfasi eccessiva” posta sul lutto – è lo scopo di fondo del suo libro, a partire dall’analisi di che cosa significhi “esattamente capire la morte”.
Nel loro piccolo, anche le formiche – da loro il discorso prende le mosse – “sono in grado di rendersi conto di quando è morta una di loro”, il che non assicura tuttavia che abbiano una vera cognizione della morte, che la loro non sia puramente un reazione, ma sia invece una risposta “cognitiva” (e magari “emotiva”, anche): esempi concreti e disamine filosofiche – sempre esposte senza tecnicismi – si alternano offrendoci strumenti che in molto casi pensavamo di avere, scambiando per tali pregiudizi e modi pensare collaudati, e portandoci alla conclusione che “non serve ricorrere ad animali cognitivamente complessi, come gli scimpanzé, per trovare un concetto della morte in natura”. Né è necessario sospettare che ogni attribuzione di tipo mentale o affettivo a un animale – dall’uso di strumenti alla capacità di ingannare o all’altruismo – non sia altro che il frutto della nostra tendenza all’antropomorfizzazione. Tendenza feconda di errori, certamente, nel pretendere di vedere qualità umane nell’animale, ma la cui critica può a sua svolta nascondere un errore altrettanto grave, quello dell’“antropocentrismo intellettuale”, propenso a ritenere esclusivamente umane certe qualità e in particolare, come si diceva, “il modo sapiens di intendere la morte”. Un modo che, si presume, si possiede o no, senza gradazioni possibili (a meno che, al posto dell’animale, si consideri il bambino, e allora ecco la disponibilità generale ad ammettere che si possono avere gradi diversi di consapevolezza della morte). Ma c’è anche un “antropocentrismo emozionale”, che non ammette reazioni emotive di fronte alla morte diverse da quelle provate da noi umani, in particolare per quanto riguarda l’espressione del lutto, che si nota ad esempio fra i primati e gli elefanti. Senza per questo sciogliere un quesito decisivo: sanno, questi animali, che non si staccano per giorni dal cadavere del compagno, o del loro cucciolo, che è davvero morto e non tornerà mai più in vita? e nel caso la riposta sia negativa, si può parlare di comprensione della morte per un essere che la ritiene reversibile? Anche alcuni umani, in forza della loro religione, lo credono… Quel che è certo è che per gli animali – si pensi all’opossum, capace addirittura di fingerla, a scopo di difesa – la morte è un’esperienza incomparabilmente più vicina e concreta di quanto non sia per gli uomini, per quelli del nostro tempo soprattutto. Un dato, questo, di cui tener conto, essendo l’esperienza della morte altrui una componente decisiva nella comprensione della limitatezza della vita. Anche della propria.
Un’avvertenza e una considerazione, in conclusione “È più che probabile che ci siano dimensioni sensoriali e di significato nel rapporto degli animali con la morte che noi non siamo nemmeno in grado comprendere, e che pertanto saranno fuori dalle pagine di questo libro”. E infine: “se riuscissimo a riconciliarci con la nostra condizione di animale potremmo riconciliarci anche con la nostra stessa mortalità”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.