Svetlana Aleksievič, Una battaglia persa, Adelphi 2023 (pp. 46, euro 5)
“Quando cammino per strada e afferro parole, frasi, esclamazioni, penso sempre a quanti romanzi scompaiono senza lasciare traccia. Svaniti nel tempo. Dissolti nelle tenebre. C’è tutta una parte della vita umana, quella del parlato, che non riusciamo a portare nella letteratura. (…) non ce ne siamo fatti stupire o incantare. Io, invece, ne sono ammaliata e prigioniera”. È questa la “battaglia persa” della giornalista e scrittrice russa? la battaglia contro il senso comune letterario, la miopia, o l’indifferenza, degli scrittori? Senza d’altra parte dimenticare l’opacità che caratterizza l’altro versante, quello della gente, fatta di quegli stessi che pure sono portatori di storie.
“Farsi largo nell’anima di una persona – ammette infatti Aleksievič – è difficile, insudiciata com’è dalle superstizioni di un’epoca, da inganni e pregiudizi. Da tv e giornali”. Che è come dire: un conto è ascoltare le donne che hanno combattuto nella seconda guerra (è con le loro voci che il libro si apre), un altro cercare una simile immediatezza, e profondità, nelle parole che perlopiù capita di raccogliere oggi. Ma non si tratta solo di omologazione delle opinioni e colonizzazione dell’immaginario: occorre aver presente come questi processi si sono declinati e si presentano in Russia, “un paese senza memoria”, “uno spazio di amnesia totale”, anche se “di grandi libri ne abbiamo in quantità…”. Il fatto è che la guerra è stato pane quotidiano nella formazione dei cittadini russi: “Sono cresciuta in un paese in cui sin da piccoli ci insegnavano a morire. La morte, ci insegnavano. (…) Ci insegnavano ad amare chi porta un’arma. (…) siamo cresciuti fra carnefici e vittime”. Se non si ha presente questa mentalità, respirata con l’aria, mancherà uno strumento essenziale per inquadrare le scelte seguite alla fine dell’Unione Sovietica, e quelle stesse che si scontano oggi: “Mi azzardo a dire che negli anni Novanta ce la siamo giocata, l’occasione che ci veniva offerta. Alla domanda: ‘Vogliamo essere un paese forte o un paese degno, in cui si viva bene?’, abbiamo scelto la prima opzione: vogliamo essere un paese forte. Siamo tornati al tempo della forza. I russi fanno la guerra agli ucraini. Ai loro fratelli. (…) Il tempo della speranza è stato scalzato dal tempo della paura. È tempo ravvolto all’indietro… È tempo di seconda mano…”.
Una battaglia persa su due fronti, dunque, che ha oltre tutto dovuto registrare il disastro di Černobyl’ (“Ormai era chiaro: oltre alle vecchie sfide del comunismo e del nazionalismo e a quelle nuove della religione, ce ne aspettavano di persino più terrificanti e globali, ma ancora invisibili”) prima di arrivare alla guerra attuale: “Vorrei scrivere di chi non spara, di chi non riesce a sparare a un altro essere umano, di qualcuno a cui l’idea stessa della guerra provoca dolore”, afferma nonostante tutto la scrittrice, senza per altro accontentarsi delle propria buona volontà: “Dov’è quest’uomo? Non l’ho mai incontrato”.
La Bielorussia, dov’è nato suo padre; l’Ucraina, che ha dato i natali alla madre e a lei stessa; “la grande cultura russa, senza la quale non riesco a immaginarmi”: queste le “tre case” di Aleksievič, che “(ha) care tutte e tre. Ma è difficile parlare d’amore, di questi tempi”.
C’è altro, prima di arrivare a questa conclusione amara, molto altro in questa quarantina di pagine da leggere lentamente, parola per parola. Ritrovandovi fra l’altro i germi dei libri che hanno portato la scrittrice, nel 2015, al Premio Nobel per la letteratura nonostante la critica che alcuni le hanno rivolto e che Aleksievič ha saputo raccogliere: “Questa non è letteratura, è documento: me lo sono sentita dire spesso e anche di recente. Ma che cos’è la letteratura oggigiorno? (…) Viviamo a una velocità maggiore rispetto a prima. Il contenuto squarcia la forma. La spezza e la modifica. (…) Anche nel documento la parola valica i limiti del documento stesso. Non c’è più un confine tra fatto e finzione, che trapassano l’una nell’altra. Non è imparziale neanche un testimone. Quando racconta l’uomo racconta, l’uomo crea, lotta col tempo come lo scultore col marmo. È attore e creatore”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.