Paolo Giordano, Tasmania, Einaudi 2022 (pp. 266, euro 19,50)
Paolo – si chiama come l’autore, il protagonista – comincia col raccontare del suo soggiorno a Parigi nel 2015, giornalista accreditato alla Conferenza sull’emergenza climatica, per soggiungere subito, legando l’occasione pubblica alla sua dimensione personale, che “se non ci fosse stata in previsione una conferenza sul clima è probabile che avrei inventato un’altra scusa per partire, un conflitto armato, una crisi umanitaria, una preoccupazione diversa e più grande delle mie da cui farmi assorbire”. Il romanzo è già tutto qui, in questa ammissione di adesione alla propria epoca e, nello stesso tempo, di propensione a prenderne le distanze cercando compulsivamente un altrove in cui trovare un equilibrio, se non una soluzione definitiva alla propria inquietudine.
Uno sforzo votato alla sconfitta e dunque alla ripetizione, che si fa oggetto e insieme motivazione dello scrivere: “Forse sta tutta lì la fissazione di alcuni di noi per i disastri incombenti, quell’inclinazione verso le tragedie che scambiamo per nobile, e che costituirà, credo, il centro di questa storia: nel bisogno di trovare a ogni passo troppo complicato della nostra vita qualcosa di ancora più complicato, di più urgente e minaccioso in cui diluire la sofferenza personale. E forse la nobiltà, in tutto questo, non c’entra davvero niente”.
E qui affiora la determinazione dell’autore a guardarsi dentro e a riferire quel che ha visto, senza fare sconti, nemmeno a sé stesso: se l’espressione, un po’ abusata, di “onestà intellettuale” ha un senso, è in scrittori come Giordano che lo possiamo verificare. Perché c’è un nesso profondo fra il fisico – un’altra coincidenza fra il Paolo del romanzo e il suo creatore – che ha scritto si può dire in tempo reale, nel marzo del 2020, Nel contagio (in queste note a metà del luglio successivo), e l’autore di Tasmania. Anche quello si proponeva di “tenere a bada i presagi” e “a freno l’angoscia”, raccontando del Covid: se il contagio è solo un sintomo, perché “l’infezione è nell’ecologia”, le sue conseguenze non si risolvono sul piano della salute. Il contagio si risolve in “un’infezione della nostra rete di relazioni”, e mette un’ombra sul futuro, consistente nell’evidenza inaggirabile che “l’impalcatura della civiltà è un castello di carte”, ma ancor più nel timore – nella constatazione, ormai – che “la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento”.
È appunto l’uomo che ha vissuto l’epoca del contagio senza cadere nella tentazione di ridurlo ad episodio riassorbibile nell’ordine precedente a scrivere questo romanzo. È l’uomo che nell’inconsistenza delle relazioni, che siano amorose o amicali o professionali, verifica una crisi di civiltà in atto, essendo le sue vicende individuali lo specchio di un mondo di continuo sovvertito non solo da pandemie e disastri ambientali, ma anche da attentati terroristici e dalla mai tramontata minaccia nucleare (e si badi, la scrittura delle molte pagine dedicate agli effetti delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki, sulle quali il protagonista raccoglie informazioni e testimonianze per scrivere un libro, ha preceduto la guerra in Ucraina e l’alone di terrore che essa è tornata a diffondere).
Il suo rapporto coniugale irrisolto, le sue amicizie sempre sull’orlo di esser messe in discussione, la sua volontà di portare avanti il proprio progetto si disperdono in un continuo peregrinare fra città diverse, in Europa e fuori, e nel cedimento a diversioni che rivelano un’incertezza esistenziale senza sbocco, e insieme una sensibilità fatta di rimpianto per un mondo di relazioni e un orizzonte di senso irrimediabilmente compromessi ma non per questo dati per perduti, e dunque riferimento di una ricerca che, per quanto disorientata e irresoluta, non si arrende, né sogna di possibili isole di pace. Per Paolo, a differenza che per il geniale e inaffidabile uomo di scienza che compare fra le sue frequentazioni, non c’è una Tasmania in cui rifugiarsi.
E neanche la scrittura sembra un luogo di conciliazione: “Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere? Ma quello era il punto in cui mi fermavo sempre. Facevo in modo che altri pensieri inquinassero il ragionamento, distraendomi quanto più possibile dalla risposta”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.