Colm Tóibín, Il Mago, Einaudi 2023 (pp. 512, euro 24)
Come nel rapporto con le persone, così in quello con i libri occorre aver presente che non ha senso, ed è fonte di dispiaceri e fraintendimenti, chiedere ciò che non ci può essere dato. Se crediamo di poterci rivolgere a questa “biografia romanzata” di Thomas Mann – questa la definizione apparsa in diverse recensioni – per sapere qualcosa di più sul modo in cui le opere dello scrittore si sono raccordate alla sua biografia, come questa ha favorito o in qualche misura reso necessarie quelle – un po’ come avviene nelle Memorie non scritte della moglie, Katia Mann –, andiamo incontro a una delusione. Non è questo che, a quanto pare, Tóibín si proponeva di fornire, quanto piuttosto una storia della famiglia Mann – che si viene così ad aggiungere alle non poche già pubblicate – e dunque dei rapporti via via stabiliti tra il Mago, com’era scherzosamente chiamato dai figli, e questi ultimi; tra lui e la moglie Katia; tra lui e il fratello Heinrich.
Momenti di vita quotidiana in casa Mann ricorrono dunque nella narrazione, ma oltre alla ben nota disciplina del personaggio (scrittura al mattino, lettura e passeggiata al pomeriggio), ad esserci illustrata è l’evoluzione della figura del padre agli occhi dei figli. Da creatore onnipotente e misterioso a testimone distante e silenzioso dei costumi quanto meno eccentrici della maggior parte di loro e, infine, a vecchio letterato celebrato nel mondo ma per molti versi deludente in casa: “Sono sicuro che il mondo ti è grato dell’attenzione totale che hai dedicato ai tuoi libri”, gli scrive il figlio Michael dopo il suicidio del fratello Klaus, al cui funerale il padre, impegnato in una conferenza a Stoccolma, non ha partecipato, “ma noi, i tuoi figli, non proviamo nessuna gratitudine per te, né per nostra madre, che ti è stata a fianco”. La presa di distanza dal padre coinvolge dunque anche Katia, personaggio decisivo nella vita di Mann, e in queste pagine testimone lucida e benevola della sua mai sopita, a tratti quasi ossessiva, inclinazione omosessuale, al punto di farsene, sia pur senza mai darlo a vedere, complice – così suggerisce Tóibín, anche sulla scorta dei Diari dello scrittore, di cui si attende da tempo la traduzione italiana.
Meglio conosciuti erano i rapporti con il fratello scrittore, Henirich, dalla profonda divergenza di idee politiche ai tempi della prima guerra mondiale alla riconciliazione e infine alla distanza che torna a instaurarsi fra di loro, dopo la seconda guerra, a proposito del rapporto con le due Germanie. Al di là del confronto con il fratello, l’evoluzione della figura pubblica di Mann è un altro dei fili che attraversano il racconto, sino a giungere, anche in questo caso, a un appannamento sostanziale del prestigio acquisito con il premio Nobel e poi con i romanzi e i coraggiosi discorsi degli anni dell’esilio americano: quando deciderà di tornare in Europa, stabilendosi in Svizzera, Mann non potrà nascondersi che “in America c’era stato un tempo in cui avrebbero riportato la sua decisione sulle prime pagine dei giornali (…). Magari ci sarebbero stati appelli per convincerlo a restare (…). Un tempo, si rese conto, era stato una figura di spicco. La sua importanza era durata un decennio e poi era svanita”. E analoga sarà la sua sensazione di fronte all’entusiasmo di facciata che gli viene tributato a Weimar e alla deferenza superficiale che lo circonda nella sua Monaco, involgarita in una sostanziale rimozione della storia recente. L’incrinarsi della figura pubblica ha del resto riscontro nell’intimo dell’uomo, ormai settantacinquenne: “era autore di molti libri scritti in uno stile elaborato (…), che evocava con estrema disinvoltura i nomi famosi del pantheon tedesco. Era, sotto tutti gli aspetti, un grande uomo. Avrebbe intimidito perfino suo padre. Nessuno invece si sarebbe lasciato intimidire vedendolo confrontarsi col proprio viso invecchiato (…). Gli sguardi quasi beffardi che rivolgeva a sé stesso allo specchio avrebbero lasciato tutti interdetti, quel sorrisetto breve, malizioso che gli spuntava sul viso quasi fosse contento che ancora una volta, come il suo Felix Krull, non l’avevano scoperto”. Felix Krull, il protagonista del suo ultimo romanzo (abbozzato molti anni prima, ma pubblicato solo nel 1954), pare infatti rispondere alla sua aspirazione conclusiva: “avrebbe romanzato l’idea che degli umani non si ci si può mai fidare, che capovolgono la loro storia a seconda di come tira il vento, che la loro vita è un continuo, snervante e divertente tentativo di risultare plausibili”. Ciò non basta tuttavia a compensare la disincantata impressione di non essere ormai che “l’ambasciatore di sé stesso”: sono toccanti le ultime pagine, in cui lo scrittore sente ormai imminente la morte e, dopo il discorso pronunciato davanti agli abitanti di quella città, Lubecca, che l’aveva aspramente criticato sentendosi descritta senza infingimenti nel suo primo grande romanzo, I Buddenbrook, e che ora gli conferiscono la cittadinanza onoraria, sente di non aver chiuso il cerchio della sua esistenza, e della sua carriera letteraria, ma di aver solo “camminato con passo malfermo”, in Germania prima, poi in Svizzera e in Francia, e in California per anni, prima di tornare in Europa e concludervi la sua esistenza.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.