Gian Luigi Beccaria, In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi 2022 (pp. 112, euro 12)
Si dice velocità e subito si pensa ad aerei e a internet, al presente insomma, ma occorre riflettere: senza la velocità “non avremmo capolavori come Le nozze di Figaro” e molta altra musica del passato, né avremmo avuto le fiabe, non a caso indicate dal Calvino delle Lezioni americane come esempi di “rapidità”. Non è con questo genere di celerità che l’autore si pone “in contrattempo”, ma con quella che, estendendosi al leggere come allo scrivere, e conquistando il lettore quanto l’autore, “sta dando luogo a un’erosione culturale la cui portata ancora non siamo in grado di valutare”. La velocità, nella sostanza, non è sempre sinonimo di guadagno, ma comporta una perdita secca anche se non facilmente definibile.
Quante recensioni leggiamo che non sono altro, in realtà, che l’esito di esami del testo affrettati – o addirittura incompleti – e dunque incapaci di star vicini al “mestiere” di uno scrittore e farne emergere il “gesto stilistico peculiare”? Recensioni solidali, di fatto, con una lettura condotta non all’insegna di “attenzione e indugio” ma avendo di mira soltanto “piacere ed evasione”. Non si tratta di contrapporre la lettura lenta a quella rapida, occorre piuttosto non dimenticare che nei frontespizi dei libri di Aldo Manuzio figurava un motto tuttora valido: festina lente, “affrettati lentamente”. Leggi pure speditamente, ma non tanto da compromettere “la sicurezza del senso” che il testo esprime. (Viene in mente quella battuta di Woody Allen: “Ho fatto un corso di lettura veloce, ho imparato a leggere trasversalmente la pagina, e ho potuto leggere Guerra e pace in venti minuti: parlava della Russia”).
Beccaria, da linguista e critico letterario qual è (e ha ampiamente dimostrato di essere, per esempio in libri come Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, in queste note a fine febbraio 2020) si sofferma sui doveri dell’interpretazione, incompatibili con la fretta, ma è ugualmente attento all’esperienza dell’insegnante – è stato anche quello – costretto a fare i conti con il “collasso sintattico”, oltre che con la povertà lessicale, che balzano agli occhi dalla pagina scritta di studenti dediti più alla lettura dei social che a quella di saggi e narrativa. (Ma il problema è più vasto: “Chi di letteratura e di lingua letteraria oggi si occupa si sente come un superstite”, in un clima culturale – e normativo, per quanto riguarda la scuola – nel quale più o meno esplicitamente corre l’idea che il sapere si possa ridurre a ciò che serve e “le materie umanistiche vadano sostituite da insegnamenti scientifici finalizzati alla produzione di tecnologie utili al mercato”).
Ma veniamo alla lettura. Non si tratta di alzare lamentazioni sulla morte del romanzo, del libro, del leggere: “Importa piuttosto che non si sfoglino le pagine con eccesso di ansiosa rapidità come oggi col telecomando si è portati a sfogliare con scarsa attenzione la Tv e i piccoli schermi”, perché, non c’è niente da fare, “rispetto al vedere il leggere e lo scrivere appaiono applicazioni più faticose” e lo scrivere, in particolare, “è operazione che esige una competenza oggi in disarmo”, tanto da far temere ad alcuni – nonostante il tanto scrivere che i social inducono, o forse proprio in forza di questo uso generalizzato – di essere in presenza di “un’oralità di ritorno” e di “un analfabetismo di nuovo tipo”, capace di confrontarsi con il mondo solo in un presente sbriciolato e simultaneo in cui padri e maestri non hanno cittadinanza o, meglio, “tutti si sentono maestri di tutto”. E non perché abbiano letto molto, tanto meno perché abbiano letto con la cura, e a tratti la fatica, che la lettura chiede, quando è lettura.
Analoghe osservazioni si possono rivolgere alla scrittura, riandando a quanto già Leopardi segnalava: “I libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano”. E da allora, anche sull’onda delle scelte degli editori, sempre più inclini a raccomandare “parole semplici, sintassi alleggerita”, la situazione non è di certo migliorata: “Nella narrativa di successo l’eccessiva marcatura dello stile è ritenuta un ingombro”, a differenza di quella “frettolosa simulazione di oralità” che non è che un aspetto della più generale omologazione degli stili, a sua volta funzionale alla creazione di “un lettore ‘mondializzato’”. Un lettore che non sa più cogliere, né è interessato a farlo, le “virtù stilistiche dell’autore”; che non sa apprezzare, né cerca, più che la trama della storia, il come uno scrittore la sa raccontare.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.