Zenon Mezinski, L’albero nella pittura, Einaudi 2022 (pp. 204, euro 48)
Prima gli animali, poi gli alberi. Per la maggior parte di chi ha via via acquisito una “coscienza ecologica” la non scontatezza e la problematizzazione della presenza delle piante sono venute dopo che un nuovo sguardo si era posato sugli animali. La sedentarietà dei vegetali ha cessato di apparire una mancanza in confronto con la mobilità degli animali, rivelandosi oltre tutto un’apparenza, il modo di manifestarsi di una lentezza che non è immobilità, così come vegetale ha smesso di suonare come sinonimo di insensibile, o di ottuso, privo di qualsiasi moto di pensiero: l’intelligenza degli alberi, o addirittura il pensiero delle foreste, sono ormai temi di divulgazione.
Come altre forme della sensibilità contemporanea, anche quella che si mostra nei confronti degli alberi ha tuttavia precedenti remoti: al di là delle acquisizioni scientifiche, l’empatia suscitata dalle piante è lentamente maturata nei modi di guardarle e di assegnare loro un posto nel mondo, modi che trovano testimonianza nella pittura. “Raccontare il modo in cui l’albero si è ‘fabbricato’, sotto la matita degli artisti – avverte l’autore, storico dell’arte ed ecologo –, interroga e impronta la nostra esperienza della natura”. Che è come dire che la natura, in generale, e gli alberi in particolare, non erano lì da sempre bell’e fatti, ma sono, come tutto il resto, anche costruzioni culturali, messe insieme poco a poco, per cui “noi siamo gli eredi” di una “storia visiva” elaborata da pittori e poeti “a partire dal XVI secolo”, matrice di “uno sguardo comune, estetico, ecologico che, collegandoci al passato, interpella la nostra presenza nel mondo”. Ancora oggi, in pieno antropocene, si può dunque affermare che “la presa di coscienza (…) dell’importanza del patrimonio arboreo trova le sue radici in artisti pionieri che, con la cartella sotto il braccio, per primi hanno interrogato il mistero dell’albero”.
Ripercorrere il lavoro di questi artisti non è dunque solo un modo originale di riattraversare la storia dell’arte – europea, è bene precisare –, ma anche di riandare ai precedenti del nostro modo di guardare, e di sentire, la presenza di questi esseri, apparsi sulla Terra molto prima di noi e di ogni altro animale.
A rompere la “logica simbolica e ornamentale” che regola la rappresentazione degli alberi nel Medioevo, ma si ravvisa ancora nel Quattrocento, è “una nuova sensibilità per la natura” che si manifesta a metà dello stesso secolo ma trova piena espressione in Leonardo, il quale “scruta la materia vegetale a tutti i livelli e cerca di coglierne i segreti”, per cui “l’albero diventa un oggetto di indagine privilegiato”, non riducibile a schemi buoni una volta per tutte. Si dice alberi, ma si parla in realtà di entità differenti, ognuna con caratteri propri che il pittore deve saper rendere: è questo l’impegno ravvisabile nella pratica dei pittori di paesaggio, da Bellini e Tiziano agli artisti del nord Europa, come Dürer e Bruegel il Vecchio innanzitutto.
Nuovamente piegati – se pur con risultati di eccezionale suggestione, ad esempio in Claude Lorrain – a svolgere il ruolo di “ingrediente essenziale” nel paesaggio classico del XVII secolo, gli alberi assumono invece tra gli artisti olandesi un ruolo che sfugge all’“idealizzazione classicizzante”: lavorano dal vero, questi pittori, in ciò precorrendo la pratica dei romantici che, dopo aver assegnato all’albero il compito di tradurre visioni interiori di solitudine esistenziale – come in Caspar David Friedrich –, sanno accostarsi alle piante con un atteggiamento, che suona più che mai attuale, di considerazione e affetto. L’inglese Constable “(disegna) alberi per tutta la vita”, evidenziando una sensibilità che si ritroverà nei francesi della generazione successiva: per Camille Corot, scriverà Paul Valéry, “l’albero cresce e non può vivere che nel proprio luogo; quel tale albero, in quel tale punto. E quell’albero, così ben radicato, non è solo un esemplare della sua specie; ma è individualizzato; ha avuto una storia che non ha eguali. È, per Corot, qualcuno”. Sono “ritratti di alberi”, dunque, quelli che Corot ci ha lasciato, non diversamente da Théodore Rousseau e dagli altri pittori che lavorano nella foresta di Fontainbleau, conquistati dall’idea di “ritrarre la natura con sincerità”, mossi da “un sentimento di empatia basato su una ‘religione della natura universale’”. Anche Monet è fra questi artisti, ma a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, “usciti dalla foresta, i paesaggisti si interessano alla quotidianità della campagna e alle periferie urbane”. La conseguenza è che “gli alberi degli impressionisti non presentano interesse in quanto tali. (…) Il carattere spettacolare o unico di un singolo esemplare non rientra più fra i criteri di selezione del pittore”. I cipressi di Van Gogh ci restituiscono la sua “visione allucinata”, le sue sensazioni più che la fisionomia del soggetto rappresentato, e in seguito l’albero diventerà sempre più motivo di “sperimentazioni visive”, di “giochi grafici, contrasti cromatici, semplificazioni e costruzione geometriche”.
“Gli artisti contemporanei” tuttavia – constata in conclusione l’autore –, si riappropriano del tema dell’albero: “la presa di coscienza ecologica esorta a un nuovo ritorno alla natura. Non più verso una natura selvaggia da scoprire, ma da comprendere e considerare”. Gli alberi sono ancora lì, disponibili allo sguardo di chi li sa vedere: “(…) il disegnatore / cacciatore di gioia / senza farvi alcun male / vi fa il ritratto – recitano i versi di Prévert che Mezinki ha posto in esergo – e voi (…) lo lasciate fare / anzi gli date una mano / modelli esemplari / e disinteressati (…)”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.