Maylis de Kerangal, Fuga a est, Feltrinelli 2023 (pp. 95, euro 12)
Coscritti, giovani chiamati alle armi che viaggiano sulla Transiberiana, il treno che percorre lentissimo, accumulando ritardi su ritardi, i novemila chilometri fra la capitale russa e Vladivostok: “vengono da Mosca e non sanno dove vanno, nessuno gli ha detto nulla”. Tra loro Alëša, vent’anni. Se ne sta nell’ultimo vagone, “la fronte premuta contro il vetro posteriore del treno, quello che dà sui binari” e guarda la “steppa viola e lanosa – il suo paese di merda”. Basta questo per farci capire: lui è uno dei tanti che “ha pensato di riuscire a evitare il servizio militare, a fregare il sistema e farsi esonerare”, “a Mosca non c’è un solo ragazzo tra i diciotto e ventisette anni che non provi a fare lo stesso”. E già qui la figura di Alëša, appena incontrata – siamo alle prime pagine – ci fa pensare a ragazzi come lui, quelli che Putin ha mandato in Ucraina, anche se questo libro, in Francia, è uscito undici anni fa, nato oltre tutto dalla riscrittura di un radiodramma che l’autrice aveva composto l’anno prima, dopo un viaggio sulla Transiberiana, invitata come altri scrittori francesi in Russia, mentre colleghi russi lo erano in Francia.
No, non c’era la guerra allora, ma i giovani soldati che osserva sembrano disperati come se la loro meta fosse il fronte. Perché la Siberia, lo sanno bene, “è luogo di messa al bando”, “un buco nero” dove li attende “la caserma e il diedovchina, il nonnismo contro le reclute”. Niente di goliardico, feroce violenza invece, come quella che qualche anno prima ha ridotto un soldato, il soldato Sytchev, in fin di vita. Un caso che in Russia, nonostante minimizzazioni e omertà del potere, militare e non, ha fatto scalpore. Ma la Siberia resta la Siberia: Alëša lo sa, “lui sarà solo, nessuno potrà fare niente per lui”. Ed è là che sta andando. Senza soldi e senza famiglia – a parte la nonna con cui ha fino allora vissuto –, non poteva farcela a sottrarsi al servizio militare, perché se non sei figlio di una “famiglia agiata” pagare medici e funzionari vuol dire il più delle volte buttar via i pochi soldi che si hanno, e allora non resta che mettere incinta una ragazza, unica circostanza che può valere l’esonero. Ha provato a cercane una anche lui, ma ha lasciato perdere, non se l’è sentita di sopportare “quell’umiliazione, quell’espediente”. E dunque è su quel treno, incapace di mescolarsi ai compagni che nascondo la loro paura nel chiasso e nell’alcol.
Pagina dopo pagina ci sentiamo sempre più contagiati dall’ossessione del protagonista, presi nell’attesa che qualcosa accada a rompere l’atmosfera angosciosa fatta delle immagini, delle voci, degli odori di questo branco insensato, violento di giovani stipati nella terza classe insieme a famiglie misere, uomini ubriachi, neonati che strillano. Tutti sorvegliati dalle implacabili hostess del treno cui non sfugge niente e riferiscono ai sottufficiali responsabili del convoglio. Nascondersi fra quella povera gente? o approfittare di una delle fermate e fuggire?
No, sarà altro a dare un colore nuovo a questa odissea: una donna, Hélène, una francese con cui Alëša, scambiatisi i nomi – nient’altro, perché non si capiscono – si trova a condividere fiammiferi e sigarette, un po’ di vodka, qualche sorriso privo di sottintesi. E silenzi, lunghi silenzi che li tengono vicini. Lui, ancora un ragazzo, e lei una donna che ha passato i trent’anni. Ma anche Hélène è sul quel treno senza averlo davvero deciso: sta fuggendo, dall’amante russo che aveva seguito in capo al mondo in preda ai sogni con cui la storia e la letteratura della grande Russia l’avevano conquistata. Ma la Russia è altro: sono i burocrati con cui l’uomo che credeva di amare doveva fare i conti per quanto ne fosse disgustato, sono viaggi della disperazione come questo
Per questa ragione si capiscono, senza bisogno di parole. Per questo lei decide di aiutarlo, perché si sente “unica al mondo davanti alla sua domanda”: lo porta con sé nel suo vagone di prima classe, dove lui può finalmente addormentarsi.
Il racconto prosegue, con un ritmo che non conosce pause, non permettendo che la tensione si allenti, in netto contrasto con la lentezza del treno e l’immobilità indifferente dei luoghi che i finestrini inquadrano. E i paesaggi sono importanti per l’autrice: “Non potrei scrivere se non avessi prima un posto che la narrazione può abitare”, ha spiegato in un’intervista. Poi ci sono le persone che ha incontrato, certo, che ha osservato, ascoltato – solo qualche appunto sul suo taccuino, “per me la scrittura viene sempre in un secondo tempo, in differita”–, persone reali dunque, cui però se ne aggiunge qualcuna che ha solo immaginato.
L’unica francese a bordo, in quel viaggio sulla Transiberiana era lei, Maylis. Hélène è venuta dopo, con la scrittura…
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.