Francesco Pecoraro, Solo vera è l’estate, Ponte alle Grazie (pp. 207, euro 16)
Il mare e l’estate come spazio-tempo capace di restituire senso a esistenze immaginarie, nella sostanza disilluse, come in La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013); la miseria e la sciatta casualità del paesaggio urbano, con la sua “devastazione palazzinesca”, come nel precedente Lo stradone (2019, per lo stesso editore), e come in quest’ultimo la memoria del tempo della politica, di un progetto collettivo ormai impensabile: sono molti gli elementi di continuità che si possono rintracciare nei romanzi di Pecoraro, oltre che sul piano dei contenuti su quello dello stile, che sistematicamente intreccia racconto e riflessione, voci dei personaggi e disincantate denunce dell’autore, insofferente di distinzioni rigide fra discorso letterario e saggistico, fiducioso delle potenzialità critiche della narrativa.
Molto è stato scritto su questo nuovo romanzo, capace di rappresentare i modi in cui “la grande Storia – oggi la globalizzazione – si infiltri nella nostra vita quotidiana” (Filippo La Porta, su “Robinson” lo scorso 25 marzo), e di rendere il “senso di impotenza”, l’indifferenza venata di amarezza di una generazione “frantumata e edonista” (Gianluigi Simonetti in “Tuttolibri”, un mese prima). Non stupisce il fervore di commenti – di cui anche la quarta di copertina offre un campione – in occasione dell’uscita del libro, giustificato certo dal suo valore letterario, ma anche dal suo intento di fondo, sul quale vale la pena di concentrare l’attenzione.
La breve vicenda, un weekend, di tre trentenni romani che scelgono di andare al mare, mentre la loro comune amica preferisce andare alla manifestazione contro il G8 di Genova – siamo nel luglio del 2001 –, e la ferocia che là lo Stato, per mano “dei suoi repressi frustrati sotto-pagati servitori, manifesta nel “massacrare i propri cittadini”, sono le circostanze che permettono di mettere a fuoco una questione di fondo, irrisolta e attuale: perché una insofferenza sociale diffusa, canalizzata sempre meno dai partiti, e una presa di distanza recisa dai vizi della politica non sfociano che episodicamente in forme di protesta collettiva e non sanno comunque tradursi in espressioni stabili e organizzate? La risposta è netta: perché un’ambivalenza di fondo, o meglio: un’ambiguità sostanziale permea modi di vedere e propensioni al fare. Lo rende evidente uno dei tre amici, del quale l’autore ci riferisce il sentire di fondo: “Ok, pensa, siamo alla mercé del capitale globalizzato, stiamo distruggendo er pianeta, ma io vado a Milano più o meno in quattr’ore (…), la connessione diventa sempre più efficiente (…). Non lo dice apertamente, ma la montante civiltà globale gli piace, è interessante, tutti parlano con tutti (…). Certo c’è il progresso selvaggio del capitalismo, c’è sfruttamento e fame nel mondo, ma (…) fame-nel-mondo ci sarà sempre. A Enzo sembra di essere chiaramente & apertamente contro, ma non sente il bisogno di dirsi che è intimamente pro”. La precarietà del lavoro conta, ma contano anche la convinzione, ormai acquisita, che “l’unica carriera possibile è da sfruttato a sfruttatore”, e l’ammirazione per “il successo in sé” che di una simile conclusione è il corollario, anche se non si “è in grado di dirlo e dirselo apertamente”: “ammirazione inconscia, disprezzo palese”. È questo modo di sentire, di essere, che il romanzo indaga, a partire proprio dalle scelte operate in quel fine settimana: se i tre maschi – tutti “genericamente di sinistra, per altro – neanche hanno messo in conto di andare alla manifestazione di Genova, nello spingere la ragazza a parteciparvi ha giocato soprattutto il fatto che “le hanno detto che là ci saranno tutti. Che saranno tutti l’ha letto sul giornale: (…) uno spaccato dell’antagonismo contemporaneo e globale”, anche se lei, di suo, “non è anarchica, non è comunista, non è socialista, non è fascista, non è praticante, non è atea (…) non crede nella decrescita, ma detesta anche solo la parola crescita”.
É una condizione, quella dei protagonisti di questo romanzo, che non appartiene al passato, ma si estende al nostro presente. E non coinvolge solo i giovani. (Ha cinquant’anni, oggi, chi all’epoca dei fatti raccontati ne aveva trenta…).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.