Paolo Malaguti, Piero fa la Merica, Einaudi 2023 (pp. 208, euro 18.50)
“Nel bastimento non vi può stare che 300 persone e invece ne sono più di 800 che siamo fissi come le sardelle”: parola di Giovanni Biagio, migrante nel 1877. Ogni capitolo inizia con la citazione di un passo delle lettere scritte ai parenti rimasti a casa da quelli che hanno lasciato il paese per andare in Merica. Ma non ritroviamo in queste pagine il racconto già molto frequentato dell’epopea dell’emigrazione italiana verso il nuovo mondo. La lingua impiegata non è quella del romanzo-saggio, ma si mantiene vicina alla parlata dei protagonisti, contadini veneti timorati di Dio ma anche interpeti originali delle Scritture (“Ha detto l’arciprete: prima ci stavano Adamo ed Eva, giravano nudi, senza vergogne.
Poi Eva ha dato retta al serpente, e tutto è andato in mona”). Anche l’ambiente in cui la storia si svolge non è quello che ci si potrebbe aspettare: non le periferie delle metropoli statunitensi né la Pampa argentina, ma il mato, la foresta selvaggia e impenetrabile del Brasile, in cui i Gevori, padre e figli, insieme ad altri che come loro non hanno trovato di meglio che cercare oltreoceano le risorse per sopravvivere, si addentrano costruendo la strada che li porterà a diventar padroni di un pezzo di terra, come avevano sperato e gli era stato promesso (“là c’è terra a non finire, terra vera. Che aspetta solo chi venga a prendersela”), senza che gli fosse detto di fatiche e di pericoli inimmaginabili.
Fin qui, un romanzo storico, di buona fattura. E invece c’è altro: lo sguardo di Piero. I pensieri, le speranze, le paure, i primi amori, il conflitto con il padre, l’apprendistato esistenziale di un quindicenne che non ha dimenticato la sua infanzia dominata dalla fame, passata a saccheggiare nidi col fratello minore, e le prime prove del dolore, la consapevolezza della colpa che per esser stata commessa in stato di necessità non cessa di mordere (“non riesce a smettere di pensare ai nidi rimasti vuoti, agli occhi neri e brillanti della merla, tra i rami, persi a fissare il niente che ha lasciato”). E insieme a questo rovello, la coscienza delle diseguaglianze, come quella segnata dal muro di cinta della tenuta dei signori, cui è addossata la baracca dei Gevori (“Bisognerebbe mandare via il Pisani – è il pensiero che inevitabilmente affiora – e prenderci la villa”, “così granda che dentro ghe sta comode trenta famiglie”). Un destino di inferiorità cui non pare si possa sfuggire, e si riproporrà infatti nel fare routinario e cinico degli agenti che smistano gli emigranti verso mete a loro ignote, ma sembrerà ribaltarsi quando Piero, insieme agli altri come lui, si troverà dalla parte degli oppressori per difendere i propri campi, ricavati bruciando la foresta, dai bugre, gli indigeni che quella stessa foresta abitavano da sempre. É qui che i miseri, laboriosi contadini sono costretti ad assimilarsi a conquistadores spietati: “è poco da girarci attorno, i bugre stanno là da prima. Che siano bestie o uomini è un problema secondario, in ogni caso la terra che si sono presi, prima era la loro. Difficile che venissero anche a ringraziarli”. Piero lo sa bene, e “sente nello stomaco e giù per le budella che quello che stanno per fare non può essere giusto”, ma lo fa, anche lui. Uccide una giovane indigena che fuggiva dal villaggio in fiamme con il suo bambino, e questa esperienza lo segna per sempre. “Ha capito che presto o tardi tutti sono calpestati e tutti calpestano” e “non esiste pitocco tanto pitocco da non essere, almeno una volta nella sua magra esistenza, carnefice di qualcun altro”. Non può più restare con gli altri, per i quali “sono bastati pochi giorni per fare finta che nel mato non fosse accaduto nulla”. Se ne va. Lascia la foresta e raggiunge la regione delle miniere: il destino gli riserva un’altra vita, ma non cancellerà la conclusione cui è giunto, “che in questa vita la grazia più grande che può farci Nostro Signore è di dimenticare, e tornare a guardare solo avanti, come si faceva da bambini”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.