Il senso noto e non detto
neanche a me stesso
il senso di colpa
di provare dolore
di saperlo sentire
più che per la fine
cui è giunto un umano
per quella che
incredibilmente
ha raggiunto anche te
che non si doveva
credere non si doveva
dire di credere fossi persona.
Ma è così che m’accade
che m’è sempre accaduto
di sentire una pena
che soffoca come
un dolore bambino
anche quando ho trovato
il nudo uccellino
caduto dal nido
ancora tremante
sotto la pianta
anche quando ho veduto
dello scoiattolo
sull’asfalto intatta
solo la coda.
Non m’ha accoltellato
tanto la morte
dell’amico lontano
che m’aveva da poco
mandato un saluto
per dirmi quando
sarebbe venuto
quanto la tua che m’eri
invece vicino
senza dire né scrivere
solo guardando
solo attento guardando
ogni mio movimento
solo vivendo
solo accanto vivendomi
ogni momento.
°°°°°
Era Presente la tua figurina
pensosa a vedere
dalla finestra la sera calante.
Era Presente il tuo piccolo corpo
dormiente dimentico
del tempo del mondo.
Era Presente la carezza
che ti facevo
per ringraziarti d’essere tutte
le volte lì ad aspettarmi
quando rientravo.
Eri Presente eri Sempre
ho voluto credere
appendendo alla tua
sagoma bianca
come un cartello l’assillo
che senza tregua
fra Passato e Futuro
oscuro m’insegue.
Ecco perché il tuo
non esserci più
si fa voragine
in cui tutto minaccia
impensabilmente
di scomparire.
Perché non ci sono
del tutto lì dove sono
gli umani anche quelli
vicini anche quelli
che t’amano e ami
e quando davvero
non sono più
non cessano d’esserci
perché son dentro di te
perché sono te
e lo saranno perché
mai sono stati
l’Altro che vedevi toccavi
ma non si confondeva
con i tuoi occhi
con le tue mani
e perciò non finiva
di farti sentire
il mistero dell’esserci
lasciandoti dimenticare
quell’altro che il non
esserci più
il grande specchio
della vitamorte
improvviso rifletterà.
°°°°°
Dov’è Bianco?
ci si chiedeva di tanto in tanto
sapendo tu scomparire
restandoci a fianco
riempiendo di te
i posti a te cari
forse perché
capaci di accogliere
il tuo stare immobile
a dormire a pensare
a giocare al tuo gioco
di farti invisibile
ed è in questi posti
che ora ti vedo
or che invisibile
sei per davvero.
Ecco perché
è piena di vuoti
la nostra casa
inspiegabilmente
non sono più quelle
le stanze in cui
i giorni continuano
quel che vi manca
d’abitarle è il tuo modo
il tuo esserci dentro
più delle cose
che pure ci sono
come ieri e domani
coi loro colori
coi loro nomi.
Ma tu non avevi
bisogno per esserci
che un umano ti desse
un nome inventato
avevi già nome
quando sei nato.
Deserto tra tutti
è soprattutto
lo spazio al quale
sempre tornavi
sul tappeto dove
Lei medita ogni mattino
sul tavolo dove
Lei siede a scrivere
sulla poltrona
dove Lei legge
per poi appisolarsi
e tu con Lei
in sonni brevi
profondi di sogni
che avevano forse
la forma stessa
dei vostri corpi
amici fra loro
perché tu eri suo
e tua era Lei.
Ecco perché
puntualmente sapevi
starle tanto vicino
quando era Lei
a sé più vicina.
°°°°°
Non ha trovato
un nome il tuo male
nessuno ha saputo
spiegare perché
mansueto adattandoti
come fosse d’un altro
ti sei trovato
a trascinare
la metà del tuo corpo
di cui solo la coda
restava viva
Non potevo guardandoti
evitar di pensare
alla lepre che uguale
cercava di andare
dopo che io
cacciatore inesperto
le avevo sparato
senza accortezza
di anticiparla
come dicono quelli
che sanno sparare
perciò colpendola
dietro nel mentre
fuggiva nel campo
arato di fresco
ed ora era lì
i suoi occhi nei miei
non spauriti
stupiti se mai
dello straniero
rumorosamente
irrotto ad assalire
la sua vita quieta.
Avevo di nuovo
sparato per chiudere
quegli occhi che
non finivano
di domandarmi
e mai più
da quel giorno
avevo cacciato.
E adesso era l’ora
di tornare a decidere
la fine di un essere
silenziosamente
assalito da un male
doloroso umiliante.
Fissato il giorno
stabilito il momento
si poteva voleva
pensare che lui
nulla sapesse
e invece è accaduto
la sera prima
della sua morte
è tornato
dove la sera
amava a noi
accompagnarsi
a sollecitare carezze
ed è stato allora
che come
da che era malato
non aveva più fatto
la micia grigia
la gatta sorella
Gri l’ha accudito
leccandogli il pelo
lavandolo come
sempre l’un l’altro
avevano fatto.
Ed è stato come
avessero entrambi
d’un commiato sentito
l’ora esser giunta.
°°°°°
Non vorrei ma lo faccio
non so tenermi
dall’attraversare
il dolore che provo
se lascio che torni
in fotografia
or che non sono
cassetti o album
a conservare nascoste
le immagini che
invece adesso
ti seguono sempre.
Non so aggirare
né domesticare
il dolore che viene
dal tuo sguardo che ancora
mi guarda da allora
non sei anche
il prima ed il dopo
che le foto d’umani
fan trapelare
non sei anche altro
da quello che appari
tu sei lì interamente
incurante innocente
ma dov’ero io
che cosa facevo
prima ed ho fatto
dopo quell’attimo?
Come un rimorso
d’aver sperperato
la tua presenza
mi prende guardandoti
e dirmi non vale
che non si può
della presenza
d’un essere fare
scorta in vista
della sua assenza.
Ma non è
per questo soltanto
che la tua immagine
si fa trafittura.
E’ poco la tua
figura a fronte
di quello che eri
quand’eri lì
senza saperlo
in quella posa
ma è insieme troppo
a fronte di quello
che dentro di me
ancora sei
troppo bruciante
rispetto al ricordo
di quello che eri
perché non sei più.
Nonpiumaipiù
è la pietra inscalfibile
che la memoria
sa far rotolare
ma la fotografia
contro ti scaglia
e torna a scagliarti
forse perché
in ogni scatto
è scritta la morte
nello stesso momento
in cui ti sembra
di salvare il Presente
perché duri in Futuro
implacabilmente
il Passato ha già invaso
il tuo sguardo
il tuo gesto.
Restano invece
Presente i momenti
che ultimi lui
è stato ed i primi
del suo non
essere più
paziente alla mano
che lo stava uccidendo
han seguitato
i suoi occhi a guardare
anche dopo che di vedere
avevan cessato
assorti a fissare
un punto che era
al di là
di tutto di tutti
ma era il suo corpo
a non voler farsi
la cosa che non
era mai stato
e il suo piccolo
cuore a battere ancora
e a resistere all’ago
che lo trafiggeva.
Lo carezzavo come
sempre facevo
la sua testolina
nella mia mano
e d’un tratto
sospeso lo spasmo
che l’irrigidiva
la sua piccola zampa
come sempre faceva
s’è molle piegata
e lenta s’è alzata
fin quasi a toccare
la mano a lui nota
che accompagnarlo
voleva dove
né lui né io
volevamo che andasse.
Non si dà buona morte
quand’è giunto il momento
io non l’ho vista
lui non l’ha avuta
non c’è morte buona
non c’è stata quel giorno
non ci sarà.
°°°°°
Non teme l’incontro
con la tua assenza
Lei che ne parla
Lei che ricorda
Lei che ancora
sembra vederti
dov’eri com’eri
in casa in giardino
nelle fotografie
nella tua ciotola
che ha riadattato
a tener la candela
che quando si mangia
le piace sul tavolo
tenere accesa.
Non so invece che cosa
dopo averlo cercato
a lungo chiamato
i primi giorni
in tutte le stanze
si sia rassegnata
a pensare Gri
dopo anni
per la prima volta
sola con noi.
Forse perché
lei sa bene
o come sapesse
ha deciso di fare
non esser cosa
che si possa pensare
quella venuta
fra noi ad abitare.
Un saluto ultimo per il gatto Bianco
di M.V. Burder
Chissà se davvero si può parlare con qualcuno che non sia “di casa” del dispiacere provato per la perdita dell’animale domestico. Di quell’animale che è stato con noi, e che proprio per questo non partecipa della semplice categoria biologica in cui lo si dovrebbe pur ricomprendere. Parlare delle sue gesta, dei suoi difetti e dei suoi pregi singolari, degli aneddoti del quotidiano e persino delle rare volte in cui si è sfiorata l’epica zoologica riconoscibile nell’episodio straordinario che l’ha reso memorabile, quel nostro animale domestico. E chissà se ci si può stupire a ragione, e forse indignare, nell’osservare che solo noi riusciamo a cogliere una sorta di biografia dove per tutti c’è soltanto una biologia d’accompagnamento…
D’altronde non è così anche per i morti che non ci appartengono? Per gli umani che vissero nella nostra indifferenza e delle cui imprese, positive o negative, possiamo interessarci soltanto come dati della cronaca che non modificano, se non per remota risonanza, l’orizzonte della nostra esistenza? Invece con un gatto che ha convissuto con noi sembra di sapere fin da principio che nessun altro ne avrà il menomo sconforto, e si prova così una solitudine seconda, dopo quella primaria che avvolge ciascuno dopo che si è perduta l’illusione di una fratellanza e di una comunità d’origine. Nella specie si è tutti fratelli, negli individui si è tutti in conflitto. Nella specie il dolore di uno è quello degli altri. Nell’individuo il dolore degli altri è dolore di nessuno, perché in fondo non ci tocca. Con gli animali che diciamo domestici si spezza il profilo in cui ciascuno si delimita: essi animali prolungano il nostro essere privato oltre il perimetro del suo significato, paiono delle protesi più che umane per curare l’assetto meno che umano in cui si vive da adulti, per dotarci così di un organo che in noi si è atrofizzato per molti motivi, per troppe cause che magari non sono mai state in nostro controllo. Ciò che chiamiamo “storia” è l’atrofia della socialità, dello spirito d’infanzia (sia pure per quanti non l’abbiano conosciuto nemmeno da bambini), spirito che si è poi incendiato nella lotta degli adulti contra omnes. Ebbene l’animale domestico, per definirlo ancora in questi termini proprietari, tiene aperta nella vita quotidiana la porticina per intravedere lo stato primigenio, la condizione edenica, o forse soltanto il suo sogno illusorio che, sebbene utopico, irradia nel gesto con cui si accudisce il proprio gatto, il proprio cane, il proprio cardellino. Nell’occhio dell’animale si riflette il mondo felice, dice qualcuno. Nell’occhio dell’animale si riflette lo sconforto per ciò che siamo, afferma qualcun altro. Nell’occhio dell’animale rimane la scintilla di quanto avremmo voluto e non abbiamo potuto, ribatte un altro ancora. — Quando ho accompagnato i miei animali nel nulla ho sentito per davvero che qualcosa della vita in generale mi riguardava, che il loro svanire mi concedeva una dilazione per istruirmi meglio sulla mia stessa vicenda personale. La qual cosa, invece, non mi è stata comunicata quando sono morti i miei parenti, o qualche conoscente: il loro occhio non si poteva riflettere nel mio, né io potevo secondare il loro sguardo, il loro sogno, il loro ipotetico aldilà. Infine, l’animale domestico che se ne va per sempre riassume in immagine il nostro oroscopo. Inutile invocare per sé i capricorni e i sagittari, i pesci o i leoni, le bilance o i gemelli. Se oggi per noi c’è ancora un’insegna astrologica, essa brilla nell’occhio dell’animale di casa che ci espone la forza del simbolo, il quale risulta dall’unità di biologia e biografia, di natura e di storia, di carattere e di destino. Tutte coppie che solo la paura e la ferocia umana hanno separato per darsi un’inutile speranza di sopravvivenza.
Caro Carlo, Struggente
da tanto non leggevo una lettera d’amore. Pe Lui e per Lei per quel che sembra la morte abbia svelato, per quel quotidiano che ogni giorno ci nutre d’affetti , per le relazioni con gli esseri viventi che con noi scambiano al di la delle parole o forse anche di più in assenza di parole Grazie per avermelo ricordato
Grazie, Carlo d’aver cantato anche per me d’amore e dolore che non posso e oso esternare.