Tove Jansson, Campo di pietra, Iperborea 2022 (pp. 123, euro 14)
Non è certo l’unico romanzo, questo, a raccontare del bilancio fallimentare di una vita. Della vita di un uomo colto, che l’ha passata scrivendo. Viene in mente un personaggio di Čechov, il protagonista di Una storia noiosa, costretto a riconoscere che la propria vita, pur nella sua laboriosità, ha mancato di un centro, di un riferimento certo, e quindi non può più trovare che una conclusione che la lascerà in sospeso, senza darle soluzione. Eppure la vita di Jonas, giornalista di lungo corso da poco in pensione, un centro l’ha avuto: la fede nelle parole, nella loro esattezza, nella loro capacità di precisare quel che si pensa e si intende sostenere.
Ma proprio qui sta il punto: dopo tanto tempo trascorso a scrivere milioni di parole, cercando sempre quelle giuste, “ogni tanto penso – si trova a confessare – che non ci sia niente di più pericoloso delle parole che ci spargiamo intorno. Le azioni sono in un certo senso più pure, provocano un cambiamento, nel bene e nel male, qualcosa di concreto di cui si è responsabili e che si può giudicare – ma le parole possono essere sferrate per ferire (…), così a posteriori non si è neanche più sicuri di cosa esattamente abbia fatto male, non si riesce a ricostruire, a precisare e si resta disorientati dalla propria rabbia”. E disorientato lo è, Jonas, non tanto però da trovare la forza di rivedere il suo modo di fare, di essere. Scostante, intrattabile con le figlie che l’hanno tolto dalla solitudine per una breve vacanza, così com’era stato distante dalla loro madre: “Le ragazze – è sempre la stessa storia: o rompono le scatole su ogni singola cosa, oppure passano il tempo a dar prova di indulgenza”. Ma l’orgoglio spigoloso dell’uomo si scontra con la propria incapacità di scrivere quel che doveva, la biografia di un imprenditore dell’editoria, padrone di giornali dediti “al peggior sensazionalismo e patetismo” che ha incoraggiato chi ci scriveva “a distruggere la lingua! A fregarsene delle parole!” Senonché, la professione è la professione, e un contratto con relativo anticipo, è un contratto… Ma non c’è niente da fare: stavolta il gioco non gli riesce, abbandona il lavoro iniziato, non sa procedere nella scrittura. Persino la lettera che ha iniziato a scrivere alla figlia non va oltre l’iniziale “mia carissima Maria”. Ma è proprio Maria a mostrarsi capace di andare oltre l’afasia rancorosa e tormentata del padre: “se quella lettera c’è ancora mi piacerebbe averla. Non c’è bisogno di aggiungere altro.” Non sono però queste le parole che chiudono il racconto: con l’altra figlia che gli raccomanda, al momento di tornare in città, di non lasciare nulla nella casa che avevano preso in affitto, Jonas riprende il suo volto di uomo risoluto che l’età non ha fiaccato: “Tutto in ordine. E io non dimentico mai niente”.
Un personaggio che non si può dire unico nei suoi tratti caratteriali, una situazione che non ha nulla di eccezionale, una trama esile. Ma non è il cosa, bensì il come si racconta, lo spazio che si lascia al lettore, a contare per Jansson, scrittrice per la quale “La narrativa non perdona chi non sa che cosa stia facendo”, essendo “una forma d’arte spietata e senza compromessi”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.