Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Hoepli 2023 (pp. 832, euro 30)
Uno strumento utile per orientarsi fra i molti libri pubblicati in occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, avvenuta il 15 ottobre del 1923, e insieme un’introduzione alla lettura di alcuni di essi, che queste note segnaleranno sino alla metà del mese prossimo: questo e molto altro offre quella che si potrebbe sinteticamente definire, per la sua complessità e la sua esaustività, un’ Enciclopedia Calvino, capace di render conto non solo dell’uomo e dell’autore ma anche del contesto nel quale la sua opera si è via via realizzata. Senonché, la definizione potrebbe risultare fuorviante: il lavoro di Scarpa non si limita a raccogliere dati e informazioni, ma propone letture critiche che si rapprendono spesso in interpretazioni illuminanti, di Calvino ma anche del secondo ’900 italiano, letterario e non solo letterario, e si aprono a considerazioni più generali sullo scrivere e sulla letteratura.
Il tutto organizzato secondo una “tecnica mista”: non ci troviamo di fronte a una biografia, ma i “capitoli-annale”, “cardine lineare del libro”, ci permettono di seguire i momenti decisivi della vita dello scrittore; non abbiamo fra le mani un saggio critico, ma i “capitoli-saggio” forniscono, senza osservare il vincolo cronologico, chiavi di lettura essenziali di singole opere, temi e snodi cruciali dell’opera di Calvino; capitoli contrassegnati dal titolo Dall’alto degli anni si soffermano infine sul paesaggio della Riviera ligure di Ponente, partendo dal presupposto che “uno scrittore ci potrà portare in molti luoghi e ambienti ma possiede un solo paesaggio-matrice”, quale appunto Sanremo e dintorni furono per l’autore del Barone rampante e della Speculazione edilizia, romanzi tra loro diversi ma scritti nello stesso anno ed entrambi ispirati dalla cittadina in cui Calvino visse dall’infanzia alla prima giovinezza.
Quanto al titolo, che potrebbe suonare stravagante, Scarpa precisa: la conchiglia è quella dell’ultimo racconto delle Cosmicomiche, La spirale, che si colloca nel 1965, esattamente a metà del percorso di Calvino, iniziato vent’anni prima con Il Sentiero dei nidi di ragno e concluso vent’anni dopo, nel 1985, con la morte. Ma che cosa significa quel “fa”? Non si finge, non fa la parte di, ma fabbrica, costruisce. Sì, perché come il Qfwfq della Spirale, anche lo scrittore non ha fatto altro per tutta la vita che costruire, da un lato, la propria opera e dall’altro, in parallelo, “la sua persona pubblica e scrivente”, attraverso successive messe a punto nella forma del saggio o dell’articolo giornalistico, ma anche ricorrendo puntualmente ad autocommenti, nascosti in quarte di copertina dei propri libri che lui stesso, da collaboratore dell’Einaudi e perciò in forma anonima, scriveva, oppure espliciti, nel corso di interviste o in prefazioni a nuove edizioni dei suoi libri: è il caso di quella scritta nel 1964 per la riproposta del suo primo romanzo, una vera e propria rimessa in discussione della propria poetica. Ma non sempre hanno sapore saggistico gli autocommenti di Calvino: dai Nostri antenati a Collezione di sabbia, l’ultima opera prima delle incompiute Lezioni americane, molto spesso è il racconto stesso ad accogliere stacchi metanarrativi che aprono a bilanci e riflessioni sul proprio lavoro di scrittore e sulla scrittura in generale – senza dire di Se una notte d’inverno un viaggiatore, di cui simili riflessioni si possono dire il filo conduttore.
Questa propensione all’autocommento è solo una delle costanti che, pur nella loro continua rimodulazione, Scarpa ci aiuta a individuare nell’opera di Calvino: dal “tono”, apparentemente distaccato, sottilmente ironico, a una riproposta della presenza femminile che si risolve il più delle volte nel riconoscimento di una capacità della donna di aderire alla concretezza della vita che non trova riscontro nell’uomo; dalla proverbiale chiarezza della scrittura alla discontinuità di impostazione tra un libro e l’altro nel segno di una sperimentazione sino all’ultimo messa in atto. Tema nodale, questo, per comprendere un’opera nella quale spesso, si sono individuate – in modo spesso sbrigativo e schematico – cesure fra periodi creativi diversi, o addirittura tra un primo Calvino, che si esaurirebbe all’inizio degli anni ’60 con la Giornata di uno scrutatore, e un secondo, ammaliato prima dalle suggestioni dell’astrofisica, poi dai giochi combinatori di Queneau e Perec e in seguito da esperimenti metaletterari genericamente assimilabili al postmoderno. Cesure che avrebbero marcato anche un sostanziale abbandono dell’impegno civile, un distacco dalla Storia e dai disastri e dalle angosce del mondo contemporaneo, il che risponde a interpretazioni che hanno contrapposto tenacemente, e certo non senza fondamento, Calvino a Pasolini (come nel caso della lettura proposta da Carla Benedetti, in Pasolini contro Calvino, ripubblicato lo scorso anno). Scarpa torna ripetutamente sul tema del posizionamento non solo letterario ma politico e civile di Calvino, sul suo eludere riferimenti alla propria vicenda – nonostante alcune prove in questo senso che la morte ha impedito di continuare e le tracce rinvenibili in diverse opere, come ben illustrato da Marina Paino (in queste note a fine gennaio del 2020) – e per converso sulla sua ininterrotta ricerca di un’identità, dopo l’abbandono dell’impegno politico diretto nel 1957, attraverso il confronto con Vittorini, Fortini, lo stesso Pasolini, e in seguito con scrittori di lui più giovani, da Celati a Del Giudice, marcando oltre tutto una presenza decisiva sul “Corriere della Sera” prima e sulla “Repubblica” poi.
Robusti fili di continuità sono dunque individuabili nella vicenda dello scrittore e connotano le crisi da lui attraversate e superate sempre con nuove prove che certamente hanno di volta in volta segnato stacchi senza dubbio significativi e per certi versi sorprendenti, ma mai hanno rimesso in discussione la funzione assegnata alla letteratura, baluardo contro il caos del mondo e lo svilimento del linguaggio, né hanno intaccato un atteggiamento di rigore morale per il quale la presa di distanza non comporta disinteresse o rinchiudimento nel privato, ma è al contrario condizione per uno sguardo capace di misurarsi con la “bassa marea morale” della vita civile e del clima politico. Un’innegabile crescente coloritura di pessimismo è comunque riscontrabile nella voce dello scrittore, da sempre caratterizzata, per altro, da un’“attitudine di perplessità sistematica”: se già dei racconti di Marcovaldo Calvino teneva a sottolineare la valenza di “educazione al pessimismo”, nella presentazione dei saggi raccolti in Una pietra sopra, del 1980, si constata che “La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (…) e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli”. Eppure, la forza di un’“utopia discontinua” continua ad animare Calvino: se La Giornata si chiudeva esprimendo il convincimento che “Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, (…) l’attimo in cui in ogni città c’è la Città”, Le città invisibili si conclude con la constatazione che “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, e si tratta allora di “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ma la strada di Calvino non finisce qui: il suo sguardo si allarga, nelle Cosmicomiche e in Palomar, a un radicale antiantropocentrismo, presupposto di una visione consapevole del destino che ci attende: ancora prima delle Lezioni, la scrittore indicava, fra i “talismani per il 2000”, il “sapere che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro” e non mancava di ribadire che la letteratura “sarà il poco che ci resta negli anni terribili che ci toccherà di vivere”, potendo prevedere che i quattro-cinquecento anni futuri saranno “i più duri dell’umanità”. “In questo libro (…) si cerca di non eccedere in elogi a Calvino”, premetteva Scarpa, intenzionato a restituirne un’immagine “a grandezza naturale”: il proposito, senz’altro riuscito, non impedisce, a lettura finita, di confermarsi nell’idea che Italo Calvino non è stato solo uno dei maggiori scrittori italiani e può essere assunto come “il nostro classico del Novecento” – secondo la felice definizione di Carlo Ossola (in queste note nel settembre del 2016) –, ma non ha cessato di rappresentare una figura di riferimento, sia nella sua dimensione esistenziale che in quella civile.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.