Fabio Gambaro, Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi, Feltrinelli 1973 (pp. 169, euro 18)
Il titolo evoca la definizione che Cesare Pavese, negli anni del lavoro comune all’Einaudi, recensendo il primo romanzo del collega aveva dato di Italo Calvino, “scoiattolo della penna” ma, anche, delimita il periodo di cui si vuole trattare: gli anni che vanno dal 1967 all’80, quelli in cui Calvino abita a Parigi – con la moglie Chichita, la figlia Giovanna, nata due anni prima dal loro matrimonio e il primo figlio di lei, Marcelo, adolescente – in square de Châtillon, nella periferia sud della capitale, e scrive, molto: prosegue le Cosmicomiche per passare poi, a inizio anni ’70, alle Città invisibili e al Castello dei destini incrociati cui seguirà Se una notte d’inverno un viaggiatore, nel ’79, l’anno cui risale anche La poubelle agréée. Opere che consolidano la fama internazionale dello scrittore italiano e che segnano una svolta nella sua produzione, addirittura una cesura, a parere di alcuni.
Filo rosso del libro è il racconto che Calvino stesso fa descrivendo la sua quotidianità in Eremita a Parigi, pubblicato nel 1974: “trascrizione quasi letterale”, secondo Gambaro, di un’intervista-documentario (Italo Calvino: un uomo invisibile) che la televisione svizzera aveva girato pochi mesi prima ed è ancora visibile su YouTube. Chi ha presente altre interviste di Calvino si sorprenderà del suo eloquio, in questa occasione assai meno esitante del solito, addirittura spedito in alcuni passaggi, al punto da dare l’impressione che se non un testo vero e proprio, qualcosa più di un abbozzo fosse stato predisposto dall’intervistato – del resto incline, essendo ben consapevole della sua poca scioltezza nel parlare, a preparare meticolosamente i dialoghi con i giornalisti fin addirittura a scriverne preventivamente, in alcuni casi, anche le domande.
Seguiamo dunque Calvino, insieme a Gambaro, nel suo racconto, partendo dalle ragioni che l’hanno indotto a trasferirsi: maggiori opportunità di impiego per la moglie, che a Parigi aveva già abitato e lavorato, e “il marito deve sempre seguire la moglie”, osserva ironico lo scrittore, che però, oltre ai legami da sempre coltivati con la cultura francese e con quella che rappresenta in quegli anni una capitale della cultura mondiale, ha motivi suoi per lasciare Roma, insofferente del ruolo pubblico che in Italia gli era ormai imposto e desideroso di una vita più ritirata, nella convinzione che “la condizione ideale dello scrittore” sia quella “vicina all’anonimato”. “Eremita a Parigi, quindi, non è solo un titolo felice ed efficace, ma anche una disposizione d’animo e forse una dichiarazione di intenti”, ed anche l’anticipazione di un motivo – si potrebbe aggiungere – che emergerà alla fine del Castello dei destini incrociati, dove leggiamo che “la forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista”. Il che non accade certo a uno scrittore che, se fa della Bibliothéque Nationale una delle sue mete più frequenti, avendo preso l’abitudine di “consultare libri scrivendo”, deve riconoscere che ad essere diventato ormai oggetto di consultazione è per lui “il mondo” e Parigi, in particolare, “si consulta come un’enciclopedia”, non solo visitando musei ma anche solo contemplando le vetrine delle fromagerie. Una Parigi in cui si possono frequentare, tra gli altri, Lévi-Strauss e Barthes, per citare due degli intellettuali che Calvino sente più vicini, a differenza di Sartre, “troppo politico per Italo – ricorda Marcelo, il figlio di Chichita – e lui con la politica ormai aveva chiuso”. Non una chiusura forse, ma una inequivocabile distanza è in effetti quella che marca l’atteggiamento dello scrittore nei confronti del Sessantotto e delle manifestazioni del Maggio francese, al cui proposito ammette che tutto quello che può dire “segue vecchi schemi o è campato per aria” e non gli resta dunque che restare “nella posizione ideale dello spettatore”.
Evento centrale di questi anni parigini è sicuramente l’amicizia con Queneau, Perec e gli altri aderenti all’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), di cui diventa membro autorevole e da cui trae indubbiamente stimolo per misurarsi con quel “gioco combinatorio” che “ad un certo punto si trova investito d’un significato inatteso” e sa produrre un “risultato poetico”. Prova ne sono lo schema rigidissimo che presiede alla stesura delle Città invisibili ma che non soffoca la “libertà inventiva delle singole descrizioni” né impedisce l’oscillazione fra pessimismo e utopia che percorre queste pagine. Così come Il castello dei destini incrociati, “forse l’opera più direttamente legata alla dimensione combinatoria tanto cara agli amici dell’Oulipo”, si apre nel finale a considerazioni come quella già ricordata sull’eremitaggio.
Sei anni di paralisi creativa separano questi due romanzi dal successivo: “Scrivere non mi diverte”, confessa Calvino in una lettera. “Scrivere è un lavoro duro che mi dà soddisfazione solo quando l’ho finito. L’unica cosa che ripaga dalla fatica è fare qualcosa di nuovo”. E il nuovo arriverà, nella forma di un romanzo che, come Se una notte d’inverno un viaggiatore, è un “esercizio metalinguistico ma anche un semplice divertimento” e che lo stesso autore definirà “un inno d’amore al romanzo: al romanzo tradizionale!”
Un Calvino distaccato dall’attualità, dunque? L’immagine è contraddetta dal lavoro che, nello stesso periodo, dedica alla composizione di un’antologia degli scritti di Fourier, nelle sue intenzioni un “contributo al rimescolio d’idee di quegli anni”, ma ancor più dalle dichiarazioni che accompagnano l’ultimo romanzo scritto a Parigi, esito di “un programma di lavoro” volto a dar corpo a ciò che più gli sta a cuore: “M’interessa ciò che è complesso, aggrovigliato, difficile da descrivere, e cerco di esprimerlo con la maggior limpidezza possibile”. Un programma dettato da una certezza che attraversa tutta l’opera di Calvino, espressione della volontà di mettere in campo la “resistenza della razionalità di fronte al disordine e al caos”, una resistenza che la letteratura non ha perso la capacità di opporre.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.