Serenella Iovino, Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene, Treccani 2023 (pp. 214, euro 18)
Se si è fra quelli che, come l’autrice, sono persuasi di quanto “Calvino ci aiuti a leggere il nostro presente”, non si può evitare di interrogare lo scrittore anche sul più grande problema di oggi, la crisi ambientale. Cercare nelle sue opere narrative, nei suoi saggi e nei suoi articoli riferimenti espliciti e aggiornati sarebbe ovviamente poco giustificato (Calvino è morto nel 1985) – anche se riserverebbe non poche sorprese. In questo libro si segue un’altra via, meno diretta ma più promettente: quella di verificare una sensibilità, un’attenzione al mondo non umano non in dichiarazioni, ma in testi che le lascino affiorare inequivocabilmente.
E prendere in considerazione i personaggi animali dei racconti e dei resoconti calviniani è allora una soluzione che si rivela, nei cinque casi studiati, indovinata. Anche perché, come spesso succede, parlando di animali, è di noi umani che si finisce per parlare. Chiedendosi – all’indomani degli esperimenti nucleari statunitensi nell’Oceano Pacifico, avvenimento che si può assumere come simbolico momento d’avvio dell’Antropocene – “che cos’avranno pensate le capre” esposte alle radiazioni a scopo scientifico, il ventitreenne Calvino arriva subito al punto: “noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro”. Un dovere che resta tuttavia inatteso, perché il “segreto rimorso del genere umano verso gli animali” è indissolubilmente unito a “un’ipocrisia caratteristica del genere umano” stesso, che lo porta a ignorare o a considerare inevitabile e tutto sommato effetto collaterale secondario la morte dei “gatti nelle case bombardate” e il disorientamento disperato dei “cani in zona di guerra” (li abbiamo ancora negli occhi questi esseri, anche se sono presto scomparsi dai servizi televisivi sulla guerra tuttora in corso). Se Calvino sfugge a quell’ipocrisia è perché lui non guarda la realtà “solo con gli occhi dell’umano, ma anche con quelli degli altri animali. E sa, fin da subito, che questi occhi si guardano a vicenda”. È da questa sensibilità che deriva la presenza degli animali in quasi tutti i suoi libri, ma non si tratta di elencare queste ricorrenze: questo libro “non è un bestiario calviniano”, bensì una riflessione sulla nostra epoca sollecitata da alcuni racconti nei quali, “pur non essendo un animalista”, Calvino si dimostra “molto più che un sostenitore dei diritti animali”, essendo piuttosto “un sostenitore dei mondi animali”, capace di esprimere la sua “fedeltà al sentire delle creature non umane” proponendoci “animali narrativi [che] non sono astrazioni”, ma “storie di vite in carne ed ossa che, come corpi celesti, attraggono irresistibilmente gli umani nella loro orbita”. Come avviene nel romanzo breve dedicato a una delle specie fra le più invasive e temibili al mondo che è la formica argentina, alla cui comparsa nella San Remo dell’immediato secondo dopoguerra Calvino dedica il suo racconto più “realistico”. Un racconto che, letto insieme a Primavera silenziosa di Rachel Carson, pubblicato dieci anni dopo, suona “profetico” nell’aiutarci a comprendere “le connessioni profonde tra la proliferazione di “megacolonie di insetti, il potere delle grandi multinazionali della chimica – come quella che produceva il DDT, in uso negli anni ’50 – e noi”, sicché “l’invasione della formica argentina è uno dei mille modi di cui Calvino si serve per dimostrare quanto la realtà sia tutto fuorché a nostra disposizione”.
Sono le avventure di Marcovaldo ad offrire lo spunto per venire a contatto con molti altri animali, i gatti e un coniglio (lasciando sullo sfondo pesci, vespe, mucche, piccioni che pure compaiono in questi racconti). “Fedele all’antiantropocentrismo” del suo creatore, Marcovaldo considera “equivalente alla sua” la presenza di gatti nella stessa città in cui lui vive, anche se “La città dei gatti e la città degli uomini stanno l’una dentro l’altra, ma non sono la medesima città” e “ormai da più generazioni i felini domestici sono prigionieri di una città inabitabile”, tanto da giustificare “una domanda importante: non, semplicemente, ‘dov’è la natura nella città industriale?’, ma ‘c’è ancora spazio per le nature non protette nella città industriale? Dove sono, nella città, i porti sicuri per i profughi – umani e non – senza rifugio?” Una domanda che implica la consapevolezza del fatto che la fine dello scambio reciproco – fra ‘cittadini’ e ospiti – ridefinisce anche l’umano”, comportando la presenza di “umani marginali che faticano a trovare il loro posto”, come Marcovaldo, appunto. Personaggio svagato e sognatore che, di fatto, “ci consegna una riflessione sull’ecologia politica della città”, non esclusi quegli angoli di città, come i laboratori di ricerca medica e farmaceutica, “interdetti allo sguardo del pubblico (…) se un visitatore accidentale con l’occhio curioso di Marcovaldo – ricoverato per alcuni giorni in ospedale – non rompesse il cordone sanitario” e provasse pena per il coniglio-cavia chiuso in gabbia, entrambi, uomo e animale, “alla mercé di un potere che dispone dei loro corpi”.
È in un altro luogo separato, vietato ai non addetti ai lavori, che s’aggira una gallina, becchettando quel poco che trova nel reparto di una fabbrica, accudita con evidente interesse e spirito di competizione dagli operai che vi lavorano: nel racconto, “l’innocenza di un animale apparentemente stupido si ritrova faccia a faccia con la stupidità vera, e non innocente, di un sistema oppressivo di produzione”.
Protagonisti nei racconti scritti fra gli anni ’50 e i primi ’60, gli animali continuano ad animare l’immaginario e suscitare le riflessioni dello scrittore sino all’ultimo: è il signor Palomar, vent’anni dopo, ad osservare allo zoo un gorilla albino, “enorme e patetico”, lo sguardo “carico di desolazione e pazienza e noia”. Palomar lo guarda “mentre se ne sta abbracciato a un copertone d’auto, e gli sembra che provi la sua stessa frustrazione nel voler dare un significato alle cose, senza però riuscirci mai”.
Senza addentrarci nelle digressioni scientifiche che i racconti scelti motivano e nelle considerazioni politiche e morali che ne scaturiscono, saltiamo alla conclusione cui giunge l’autrice di questo che possiamo considerare il più originale dei libri pubblicati in occasione del centenario della nascita dello scrittore: “Gli esseri che abbiamo incontrato sono la risposta di Calvino alla visione generalizzata che lascia i soggetti non umani senza volto”, volto che, “con le loro vicende, queste creature riconquistano”, situandosi nello stesso territorio etico degli umani che li osservano”, costringendoci “a pensare alle singolarità perdute, alle infinite estinzioni che si consumano (…) estinzioni di linguaggi, di creature sorelle”, e consegnandoci “un messaggio preciso: non siamo i soli abitanti di questo pianeta, e soprattutto non siamo i protagonisti della sua immaginazione. Le piante, gli insetti, i mammiferi, i batteri, le conchiglie, i rettili: sono tutti parte di una fantasia materiale che cresce, si spande e fiorisce, intorno a noi – e dentro di noi”. E “anche le parole fanno parte di questa sfera, viva e cognitiva insieme”, le parole e la letteratura, un modo, forse, per arginare l’estinzione ormai in corso, “per aiutarci a riconoscere non solo i nomi e le storie, ma l’eloquenza di queste cose che ci sembrano mute”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.