Claire Marin, La fine degli amori e altri adii che trasformano la nostra vita, Einaudi 2023 (pp. 128, euro 15)
“Ci piacerebbe che la rottura fosse un taglio netto (…). Invece la rottura è una lacerazione: “Anche rotti, i legami possono continuare a essere sensibili, membro di un’equazione fantasma, testimoni di una vita passata”. Che abbandoniamo o siamo abbandonati un residuo della presenza dell’altro è ineliminabile: non c’è lavoro del lutto che riesca al cento per cento ci ha ricordato Recalcati nel suo recente La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia (in queste note lo scorso marzo). Ma in questo libro la morte non c’è. O meglio: non le è dedicato un capitolo specifico, come invece alla nascita in quanto “prima rottura in ordine di tempo”, che ogni rottura forse riprende nel corso della vita. Ma non c’è, in ogni rottura, anche un presentimento della morte?
La quale allora, dovremmo dire, percorre queste pagine dall’inizio alla fine. Senza tuttavia gravarle di un’aura tragica: il realismo, a volte crudo, con cui si osservano gli “addii” che costellano l’esistenza, si accompagna alla constatazione delle risorse che è possibile mettere in campo per continuare, o riprendere, a vivere, non arrendendosi a “perdere di densità o al contrario ridursi a essere un fascio di sensazioni vive, fitte di dolore senza tregua”. Ma è un fatto: “Anche quando è volontaria, deliberata, anche quando deriva da un’affermazione di sé (…), da una liberazione del soggetto, la rottura resta pur sempre dolorosa”. D’altra parte, “che le si decida o le si subisca, le rotture ci appartengono. Rompere con la propria famiglia, con gli amici, con l’amante, con il proprio ambiente, cambiare lavoro, paese, lingua; le rotture ci definiscono, forse anche più dei legami”. Perché “quelle che a volte vengono chiamate ‘parentesi dell’esistenza’ – malattia depressione, lutto – sono tutt’altro che parentesi: molto spesso comportano una profonda modifica del nostro modo di pensare e di vivere”. Se si cerca di negarlo, se ci si illude di poter voltare pagina è perché “diamo per scontato che esista un ‘io’, un’identità vera in cui il soggetto si compie e si realizza nella propria singolarità”. E allora si arriva a intravedere nella rottura la promessa di un rinnovamento, ma non c’è cambiamento vero nelle (immaginarie, velleitarie) cesure che pensiamo di poter operare nel corso dei nostri giorni: una possibile “seconda vita” può se mai essere il frutto di una lenta, silenziosa trasformazione ci ha diffusamente spiegato François Jullien (in queste note a fine dicembre 2017 e 2021). Altrimenti, la ‘nuova vita’ che la rottura dovrebbe inaugurare non è che una consolazione, una ricostruzione a posteriori necessaria per sopportare il dramma, per dare un senso all’assurdità della morte, della malattia, del trauma”.
Potrebbe apparire chiuso entro i confini del singolo soggetto, il discorso di Marin, ma non è così. La crisi ambientale è a sua volta una rottura, che investe il nostro mondo e ci impone di “assimilare intellettualmente l’idea di un cambiamento necessario, di una catastrofe a venire, e di smettere di credere in una sostanziale permanenza del mondo, in una ricreazione infinita della natura. Di questo si tratta: accettare che la configurazione non è più quella della ciclicità, ma che ci troviamo ad affrontare un momento di rottura ecologica. E ciò richiede di lavorare sulla nostra naturale tendenza al diniego di fronte alla prospettiva di quelle grandi rotture che sono l’alterazione (alterazione della natura o degli uomini) o la perdita definitiva”. E insieme all’ambiente è la sfera delle relazioni che sta subendo una mutazione epocale: “le coppie vacillano, le famiglie si rimescolano come in un gioco di carte, minimizzando il dolore della rottura e la sua gravità” – magari in nome di una personale ‘resilienza’. La società liquida rilevata da Bauman torna nelle constatazioni di Marin: “nel mondo del lavoro, cambiare paradigma, in particolare sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche, è diventato il criterio di una specie di selezione naturale. (…) Le rotture della nostra epoca sono spietate. Ma se le rotture dell’epoca contemporanea sono visibili, identificabili, le crepe dell’esistenza non sono nuove”. E così si fa ritorno – senza rotture – all’ambito della soggettività, attraversando le diverse situazioni nelle quali si configurano abbandoni drammatici e vitali desideri di trasformazione, avendo presente che “in ogni rottura c’è la speranza di ritrovarsi e il rischio di perdersi”.
Grande spazio viene riservato alla “rottura amorosa”, a volte determinata non dalla “ricerca di una verità interiore, quanto (dalla) tentazione del vuoto, (da) una voluttà di cancellazione o di negazione di sé” soprattutto quando “non è dal vecchio amante che rifuggo, ma da me stesso”. Ma “sono rari quelli che se ne vanno davvero con spensieratezza. Chi rompe è altrettanto a pezzi di colui che viene lasciato”. E qui il discorso si arricchisce di riferimenti letterari, dal Barthes di Frammenti di un discorso amoroso allaDe Beauvoir di Una donna spezzata.
Rotture rispetto al proprio io possono però essere dettate anche dal piacere di non restare per sempre fissi nel ruolo, nella maschera, che le relazioni familiari e sociali ci hanno imposto, un po’ come fa il romanziere, “un uomo capace di dare vita alle personalità virtuali che si celano in lui, trasformandole in personaggi letterari”. Persino gli incidenti che possono ledere la nostra integrità fisica possono rivelare “virtualità del nostro io che restano dietro le quinte” e in questo modo indurci a “convertire questa sofferenza in un’esperienza che porta un significato”. Né inevitabilmente bruciante può rivelarsi la fine di un legame familiare, quando il momento in cui essa avviene “è il momento in cui smettiamo di credere in qualcuno, di aspettarci qualcosa da lui” e allora, “per sottrarci al contagio dell’egoismo mortifero (…) facciamo ‘morire’ l’altro in noi”.
Privo di riscatto appare invece il dolore, lo smarrimento che generano gli “esseri (che) ci abbandonano o abbandonano sé stessi prima di scomparire”, come nel caso dei malati di Alzheimer o di vecchi cui l’età toglie l’identità che un’intera vita aveva consolidato e sembrava aver reso irreversibile.
È la “tentazione dell’ottimismo” il pericolo che questo libro, a lettura finita, si rivela capace di sconfiggere, “spazzando via le letture semplificatrici e positive della rottura e del ricominciare da capo. (…) Le virtù del fallimento insomma”. Perché “spesso il fallimento è fallimento puro e semplice, misero, deludente”: “bisogna smettere di pensare che l’esperienza ci renda migliori”, raccomanda senza mezzi termini Marin. “Alla vigilia di una nuova avventura non sono più agguerrito grazie alle disfatte precedenti, rischio anzi di perdermi di nuovo per le stesse vie traverse”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.