Paolo Cognetti, Giù nella valle, Einaudi 2023 (pp. 128, euro 16)
Un cane che ne azzanna un altro e lo uccide per essere lui ad accoppiarsi. La femmina, testimone dello scontro, si concede al vincitore, che “l’annusò con gentilezza, si lasciò annusare. L’odore che lei sentì era di bosco, di terra, di foglie e del sangue del cane che aveva appena ucciso. Le venne voglia di leccarlo, e lo leccò. Poi lui la prese e così la sua infanzia era finita per sempre”. Possono Hemingway, o Carver, incrociarsi con Rigoni Stern? Cognetti pare dimostrarne la possibilità, in un racconto che per sua stessa ammissione ha nel Vecchio e il mare e nel London del Richiamo della foresta i suoi antecedenti, ma a Rigoni rimanda come al suo “grande maestro”.
La natura che fa da sfondo non è però fatta di montagne e boschi risparmiati dal proliferare degli insediamenti industriali: le creste innevate sono lontane, il fondovalle, percorso da un fiume guastato dai rifiuti tossici, è occupato da cementifici, mobilifici, magazzini. È la Valsesia, una delle tante valli alpine che lo sviluppo economico ha trasformato irreversibilmente. Ma per i due cani resta un territorio selvaggio, dove la lotta per la vita è regola. Se l’infanzia del cane era finita nell’incontro con la compagna, quella di quest’ultima termina con la morte di lui, abbattuto da cacciatori fra cui si era diffusa la voce di questo animale tanto aggressivo da far pensare potesse essere un ibrido, mezzo cane e mezzo lupo, se non un lupo addirittura.
Un altro lui, un’altra lei, nel secondo episodio – perché questo romanzo è fatto così, ha spiegato lo scrittore: di “episodi non lineari” ma che rimandano uno all’altro in un gioco di flash back e anticipazioni che complicano il “piano temporale classico” adottato nelle Otto montagne.
Elisabetta e Luigi: due giovani sposi, lei a casa, in attesa del loro primo figlio, lui a fare il suo mestiere di agente della forestale, chiamato a verificare la causa del decesso di un pastore belga da guardia, ferito mortalmente da un morso alla gola, come una decina di altri cani negli ultimi giorni. E dopo aver raccolto la denuncia, l’incontro con il fratello, un tagliaboschi appena arrivato dal Canada per cedergli la sua quota della casa paterna. Un irregolare, sbruffone, dedito all’alcol come il padre, come tanti altri maschi della valle, capaci di restare ubriachi per giorni.
Dopo i due cani, e i due sposi, questi due fratelli dunque, e sono due anche gli alberi che per un attimo entrano in scena, un larice e un abete, piantati dal genitore quando, a due anni di distanza, erano nati i suoi figli: diverse fra loro, le due piante, e pure vicine, i rami quasi intrecciati. Ha un’aura di tragedia, ineluttabile, foriera di un disastro inevitabile quanto prevedibile, il gesto con il quale il figlio che se n’era andato in cerca di fortuna a sedici anni abbatte quello dei due alberi che il padre aveva piantato per lui, l’abete. E quel che segue conferma il presagio: vicende familiari passate, progetti di impianti sciistici che muteranno forse la vita di chi in valle è rimasto, dividono i due fratelli.
Neanche nel mondo degli umani regnano pace e armonia. Ma lo sguardo del narratore sembra posarsi su animali e uomini allo stesso modo: descrive, racconta, senza schierarsi, senza giudicare. Lasciando che i profili dei personaggi, i loro rimpianti e le loro speranze, emergano dalla storia, una storia di uomini e donne, di animali e di alberi, di una valle dove solo vent’anni prima è arrivata la strada asfaltata, al posto della mulattiera, “e la gente è andata giù a lavorare in fabbrica. Spariti tutti”. E “adesso è la volta della seggiovia”, che chiederà il taglio di cinquemila piante, perché “mica si può sciare in mezzo al bosco”, deve ammettere Luigi, il forestale: “Ma è dalla notte dei tempi che gli uomini tagliano le piante, accoppano le bestie e si sfondano la testa a vicenda. Se c’è del male su questa terra è solo roba nostra”.
L’immagine sfolgorante del ghiacciaio del Rosa, che sta in cima alla Valsesia, “questa valle buia, dove i nostri peccati giacciono, inespiati”, annuncia la conclusione: il sogno, tratto da un poema celtico, di una “battaglia degli alberi”, nella quale questi esseri pazienti e inermi, finalmente insorgono, e si difendono.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.