Claire Keegan, Un’estate, Einaudi 2023 (pp. 80, euro 12)
La riconosciamo subito, da quel suo dire senza dire, o senza dire tutto: come in Piccole cose da nulla (in queste note all’inizio dello scorso febbraio), la scrittrice irlandese ci racconta di una bambina, della sua famiglia numerosa, della madre in attesa di un altro figlio, del padre che giocando a carte “ha perso la nostra Shorthorn rossa” (e non si tratta di un’automobile: era una vitella, risorsa non trascurabile nel misero bilancio familiare). L’estate che dà il titolo a questo romanzo breve da cui l’anno scorso è stato tratto il film The quiet girl – è quella che la protagonista passa presso un’altra famiglia, i Kinsella: una coppia che ha perso l’unico figlio – annegato in una vasca di liquame: è una campagna per niente idilliaca quella in cui si svolge la storia – e che accoglie con un affetto e una sensibilità per lei inusuali la piccola ospite.
Non ce la descrive l’autrice: fedele al suo stile, lascia che sia il racconto a restituircene l’immagine: “Quando il suo sguardo – lo sguardo di Mrs Kinsella – si posa su quello che ho addosso, vedo attraverso i suoi occhi il mio vestito di cotone leggero, i sandali impolverati”, e questo aspetto da “zingarella” non giova certo ad attenuare il disorientamento spaesato della piccola: “Una parte di me vuole che mio padre mi lasci qui mentre un’altra vuole che mi riporti a casa (…). Nel punto in cui mi trovo, non posso essere né quello che sono sempre né trasformarmi in quello che potrei essere”.
Grande mestiere, virtuosismi narrativi addirittura. Ma non è tutto qui: a rendere vivo il racconto è l’empatia che l’autrice lascia trasparire. Come? Adottando in tutto e per tutto il punto di vista della protagonista e offrendoci, in questo modo, un esempio lampante delle potenzialità del metodo non solo applicato ma teorizzato da Henry James, quella “prospettiva ristretta” su quel che accade, quella “visione limitata” che è propria di uno soltanto dei personaggi della storia, che permette al lettore di entrarci con un’impressione di partecipare all’esperienza raccontata che non ha paragoni con ciò che un narratore esterno – il tradizionale narratore onnisciente – potrebbe indurre. Ecco allora che vediamo i luoghi per lei nuovi, con gli occhi della bambina, che si chiede che malattia abbiano gli alberi che incontra e non aveva mai visto prima che le vanga spiegato che si tratta di salici piangenti, così come siamo portati ad ascoltare i discorsi degli adulti con la sua stessa sensazione di inutilità e ipocrisia (“Io mi ci sono abituata, a questo modo che hanno gli uomini di non parlare di niente”, “Chissà perché mio padre (…) ha l’abitudine di mentire su cose che sarebbero belle. Se fossero vere”). Ed è sempre sulla base di quel che può vedere una bambina che emerge la disparità nei ruoli familiari: appena ha finito di mangiare, il papà “ha solo voglia di accendersi una sigaretta e levare le tende. Fa sempre così”, mentre per la mamma “tutto è un lavoro: noi, fare il burro, cenare, lavare i piatti”. È su questo sfondo che inaspettatamente prende copro un modo di fare, di trattarsi reciprocamente: i Kinsella sono diversi. S’accorgono del suo sgomento: “Cosa c’è che non va, piccola? dice la donna” e lui: “Qualsiasi cosa sia, puoi parlarne. Non ci arrabbiamo mica”. La bambina lo sente: “Continuo a non trovare le parole ma questo è un posto nuovo, servono parole nuove”, e avverte chiaramente il clima che c’è in quella casa, in quella famiglia: “esprimo il desiderio che questo posto senza vergogna e senza segreti possa essere un po’ casa mia”.
La bambina gode della semplice felicità dei giorni che passano, senza però smettere di temere che possa finire, che succeda qualcosa che cambi tutto, e questo qualcosa sarà la nascita del nuovo fratellino. Deve tornare a casa, da genitori che ormai stenterà a riconoscere come tali, dopo aver conosciuto quelli che sembravano averla adottata, sia pure per pochi mesi.
Ma la bambina – non ce lo dice, la scrittrice, ma lo sentiamo – non dimenticherà quell’estate, ricorderà d’aver fatto esperienza di un amore gratuito, di una cura prestata senza calcolo, e noi ricorderemo questa bambina e il racconto della sua esperienza, proprio perché ci è stata raccontata l’ha raccontata così come lei l’ha vissuta, facendoci rivivere momento per momento i suoi stessi stati d’animo.
Più che mai per Claire Keegan è vero che più di quel che si racconta è come lo si racconta a fare buona letteratura.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.