Clara E. Mattei, L’economia è politica, Fuori scena 2013, (pp. 192, ero 16.50)
“Il capitalismo ha i secoli contati”, titolava un suo libro un economista certo non sospetto di intenti apologetici come Giorgio Ruffolo, ed “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, affermava provocatoriamente Fredric Jameson, grande critico della postmodernità. Del tutto opposta la posizione dell’autrice italiana, insegnante in un’università statunitense dove, caso più unico che raro, lo studio dell’economia non si è allineato alla corrente oggi dominante, quella che ha naturalizzato l’economia, depoliticizzandola, e condannandoci così alla rassegnazione e a un sostanziale consenso passivo nei confronti delle scelte economiche.
Un processo che trova un sostegno decisivo nel linguaggio tecnico degli economisti, che “spesso nasconde una preoccupazione altamente politica, direi quasi esistenziale, per un sistema che, diversamente da quanto ci fanno intendere, sanno bene non essere né eterno né tantomeno naturale”.
Non si sostiene, in questo libro, che l’economia non sia una macchina nella quale agiscono meccanismi, sequenze di cause ed effetti che si producono secondo automatismi. Un esempio: il rialzo dei tassi di interesse, volto a rallentare l’inflazione, produce disoccupazione, si sa, e dunque è facile riconoscere nella misura l’effetto collaterale di una scelta che tuttavia serve anche ad arrestare la corsa dei prezzi, che falcidiano i salari. Ma il punto è: quest’interpretazione è indiscutibile o c’è spazio per andare oltre? Secondo Mattei, le cose possono essere lette anche diversamente da quella che è la versione dominante, e si badi: sostanzialmente accettata anche da chi difende l’occupazione, anche dalla sinistra o da ciò che ne resta, nient’affatto risparmiata dall’ideologia della “naturalizzazione del capitalismo”: in realtà, “l’obiettivo per cui si alzano i tassi di interesse è proprio quello di ‘avere meno pressione sul rialzo dei salari’ grazie all’effetto disciplinatore della disoccupazione”. Complottismo? No, dichiarazioni di autorevoli esponenti delle principali istituzioni economico-finanziarie del mondo, che possono contare oltre tutto sulla visione corrente per cui la disoccupazione è un problema dovuto a intromissioni politiche o ad altro (epidemie o guerre) essendo il mercato di per sé garante della piena occupazione, a condizione, naturalmente, che sia assicurata la “crescita” ovvero che il Pil registri dati in ascesa: una visione del tutto teorica e distorta, che, secondo Keynes, era già ai suoi tempi propria di economisti da considerarsi “geometri euclidei in un mondo non euclideo”. Le Christine Lagarde (attuale presidente della Bce), del resto, sanno bene che “se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. Sono dunque le stesse azioni degli esperti che svelano come non vi sia nulla di più politico dell’operare per salvaguardare la nostra economia, un’economia essa stessa alquanto politica, perché interamente costruita sulla subalternità della maggioranza”.
Altro esempio, l’austerità che “costituisce proprio quell’insieme di politiche economiche che le istituzioni governative implementano per difendere a spada tratta ‘l’ordine del capitale’”, per cui nell’austerità si deve riconoscere “una tendenza politica il cui fine è quello di escludere qualunque alternativa al capitalismo”. E “coloro che vogliono essere critici dell’austerità perdono di forza politica se credono semplicemente di sminuirla riducendola a un ‘errore di policy’ – ossia, semplicemente, a una scelta politico-economica sbagliata – (…) È chiaro, infatti, che essa si occupa di una questione assai più fondamentale: assicurarsi che non vi siano alternative al vivere come lavoratori sfruttati. Questo risultato prevale sopra ogni altro, anche a costo di una momentanea recessione economica”.
Non vale la vecchia e collaudata leggenda secondo la quale se i ricchi si arricchiscono tutti qualcosa ne guadagnano, rinverdita dalla teoria dello “sgocciolamento” (il trickle-down) per la quale un abbassamento della tassazione, nell’avvantaggiare i ricchi, accelera l’attività di investimento, producendo una crescita del PIL che, nello “sgocciolare” verso tutti i membri della società, riduce le diseguaglianze, perché “ciò che è vantaggioso per i profitti è certamente svantaggioso per la maggioranza delle persone, dato che il vantaggio per i primi si fonda in larga parte sul sacrificio delle seconde”; né valgono le riedizioni del mito della “mano invisibile del mercato”: “La fiducia dei mercati è inversamente proporzionale al benessere dei cittadini”.
Sono gli argomenti, le esemplificazioni, i dati forniti, e anche un’ampia ricostruzione storica del primo dopoguerra, quando l’austerità fece le sue prime decisive prove, a dare corpo al discorso di Mattei sgombrando il campo dal sospetto che possa essere un discorso di principio, un’ideologia che si contrappone – fuori tempo, sarebbe facile decretare – a un’altra ideologia. Questo libro non va confuso con quelli che tengono soprattutto a sostenere che Marx è vivo: il riferimento al marxismo, a un’“economia politica critica”, è palese e dichiarato, ma non perché sia in grado di dare risposta a tutte le domande, bensì per il fatto che continua a costituire uno strumento essenziale per porre quelle essenziali. Del resto, sottolinea questa economista critica, “scrivo queste pagine esplicitamente militanti in opposizione alla tipica maniera distaccata degli economisti” in nome di quel “posizionamento sociale dell’intellettuale” che Antonio Gramsci riteneva inevitabile.
“La parola d’ordine, dunque, è una sola, ripoliticizzare l’economia, o meglio ri-democratizzarla, per fare in modo che i cittadini si riapproprino delle scelte più importanti che regolano le basi stesse della loro vita”. Ed è ancora Gramsci a farci da maestro: “non vi è nulla di più politico della lente attraverso la quale guardiamo il mondo. Solo se impariamo a guardare il mondo diversamente, potremo agire diversamente”, solo se ci convinceremo che “la nostra economia non è un oggetto esterno a noi, su cui agire come fosse una macchina. L’economia siamo noi come persone in carne e ossa” ed è “ora di smascherare quanto la supposta ‘scientificità’ degli economisti sia spesso un’arma per perpetuare una guerra di classe nella quale a vincere è la minoranza ricca del Paese e a soccombere è la maggioranza dei cittadini”: non può non tornare alla mente una voce che sarebbe più che mai utile sentire ancora, quella di Luciano Gallino, capace di dimostrare come La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza 2012) rappresenti un dato ineliminabile, per quanto ridefinito nei suoi caratteri e nelle sue dinamiche.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.