John Ironmonger, L’orso polare e una scommessa chiamata futuro, Bollati Boringhieri 2023 (pp. 188, euro 17)
Dopo aver messo in scena, con La balena alla fine del mondo (in queste note a fine febbraio 2022), l’unica risposta possibile, per quanto utopica, ai disastri di una globalizzazione guidata dai ciechi interessi della finanza, Ironmonger ci riporta a St Piran, il villaggio della Cornovaglia dove il cetaceo si era spiaggiato, per affrontare il problema centrale dei nostri tempi e di quelli a venire: la crisi ambientale nella veste più evidente da essa assunta con i cambiamenti climatici e l’innalzamento dei mari.
Ben consapevole – sulla scorta dell’Amitav Ghosh della Grande cecità (in queste note a settembre 2017) – dell’incapacità, o della renitenza, della letteratura a occuparsi della questione, l’autore si è proposto di affrontare quelle che secondo lui sono due circostanze che rendono difficile concepire, per chi scrive, e seguire con interesse, da parte di chi legge, storie che richiedano tempi lunghi per svolgersi e non prevedano protagonisti, come appunto sarebbe un romanzo che volesse fondare la propria trama sul tema del riscaldamento del pianeta, fenomeno che si manifesta più rapidamente del previsto ma resta pur sempre lento rispetto ai tempi delle vite umane (“ È un incidente automobilistico al rallentatore. Così lento che il guidatore pensa di non aver bisogno di mettere il piede sul freno. Pensa di avere un sacco di tempo. ma potrebbe essere già troppo tardi”). Un fenomeno che, soprattutto, è di dimensioni tali da indurre il comprensibile “ma io che ci posso fare?”. Ironmonger accetta la scommessa che compare nel titolo italiano (ma non nell’originale dove, più significativamente, era speranza): non solo la scommessa insita nel proporsi di garantire un futuro della vita sulla Terra, ma anche quella di riuscire a raccontare una vicenda che riesca a smuovere quella forma di negazionismo che, di fatto, trova alimento nel sapere e non fare, nell’essere a conoscenza dalla portata del cambiamento in corso escludendo a priori che qualcosa si possa mettere in atto quantomeno per rallentarlo.
Quali sono allora le scelte dello scrittore? In primo luogo raccontare una storia che si dipana su un periodo ampio ma pur sempre compreso entro i limiti di una vita (il protagonista, ventenne all’inizio della vicenda, alla fine è un centenario); in secondo, mettere in campo personaggi emblematici di posizioni opposte: Tom, attivista ambientale appassionato quanto colto, e Monty, parlamentare in carriera – e ministro dell’ambiente nonché premier, in seguito, nonostante sia un negazionista climatico dichiarato –, protagonisti di avventure portate scanzonatamente al limite.
Ma c’è una terza condizione, se si vuole che un romanzo ‘ecologico’, si faccia leggere fino alla fine: non esaurire in una denuncia drammatica della crisi ambientale e dei suoi massimi responsabili la storia che si vuol raccontare, e dunque impostare il patto con il lettore in un altro modo. Iromonger sceglie un registro ironico, umoristico a tratti, capace però di impennate polemiche e digressioni documentate e tuttavia, sempre, impostato sulla condivisione della sorpresa – divertita il più delle volte, sommessamente ammirata spesso – davanti alle parole, ai gesti, alle decisioni dei personaggi: lo scrittore sembra guardare con gli stessi occhi del lettore quel che accade, assumendo il punto di vista cui ci hanno abituato alcuni autori scandinavi, primo fra tutti Arto Paasilinna. Non è solo empatia verso i personaggi che in questo modo lo scrittore induce: è anche uno spirito di serena considerazione della casualità che governa le vite degli uomini, ciononostante chiamati a imprimere svolte alla loro esistenza, capaci di sottrarsi al condizionamento della legittima ma paralizzante aspirazione al quieto vivere.
Un apologo morale in veste di favola ecologista, dunque? No, Ironmonger a fra quelli che – come il Franzen di E se smettessimo di fingere? (in queste note nel dicembre 2020) – sa riconoscere che il degrado ambientale è ormai troppo avanzato per poterne immaginare un’inversione: “Abbiamo perso. E se tutte le persone a cui frega del pianeta riescono a cambiare qualcosa, forse riusciranno a convincerci tutti a ritardare il collasso del clima di dieci anni o giù di lì. Ma che senso avrebbe? Se anche l’umanità tenesse duro, quella delle prossime centomila generazioni sarebbe comunque una merdosa, miserabile esistenza. Che importanza possono avere dieci anni in un caso o nell’altro? (…) Ma una parte di me dice NO!”. È qui il cuore del romanzo, in questo riconoscimento che, nel tempo della minaccia del surriscaldamento globale, attivisti e rinunciatari non sono avversari che si guardano da sponde opposte: il darsi da fare, comunque, convive nello stesso soggetto con lo scetticismo che quel che si fa possa servire; un fondo di quietismo, una sotterranea propensione al chiamarsi fuori non sono mai, in nessuno, contrastati una volta per tutte dalla volontà di attivare comportamenti che, qui e ora, vadano contro la corrente del disastro ambientale.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.