Giovanni De Luna, Che cosa resta del Novecento. Piccolo manuale contro il disincanto, Utet 2023 (pp. 192, euro 15)
“Il XX secolo sarà stato un brutto secolo”, è il giudizio d’apertura: un secolo in cui, oltre alla violenza del nazismo e dello stalinismo, alla proliferazione degli armamenti nucleari dopo il loro uso a Hiroshima e Nagasaki, all’affermazione totalitaria della biopolitica, si sono verificate una cinquantina di guerre oltre le due mondiali, con un totale di circa 100 milioni di morti. E non è finita qui, come si leggerà nelle pagine che seguono. Ma la perentorietà del giudizio non deve far passare inosservato quel ‘sarà stato’, un futuro anteriore con il quale lo storico sembra proporsi di prendere le distanze dal suo oggetto per esercitare un’osservazione distaccata e insieme partecipe.
Per quanto “brutto”, ammette infatti, il XX secolo “è stato comunque il nostro, quello in cui siamo cresciuti, abbiamo amato, gioito, sofferto. Molte idee che allora ci sembravano fondamentali sono sparite – ma qualcosa resta. E vale la pena di interrogarsi su questa eredità”. Oltre che un bilancio, dunque, il libro vuole fornire anche – come recita il sottotitolo – un “piccolo manuale contro il disincanto” che il presente ispira non meno del passato. A differenza del secolo che soprattutto persone della generazione dell’autore, ottantenne, sentono come “nostro”, il secolo attuale risulta per molti versi estraneo, perché ciò che ci ha messo di fronte (la pandemia e la guerra in Ucraina, oltre allo “spettro della guerra civile che si agita nello Stato di Israele” – il libro è stato scritto prima del 7 ottobre 2023) induce “disagio, inquietudine, disincanto, sgomento” ma, per converso, anche “un fortissimo bisogno di conoscenza”, quanto meno il desiderio di “essere almeno in grado di riflettere sulle cause del nostro smarrimento”. Indotto innanzitutto da una tendenza di fondo: l’antropocentrismo, “pilastro concettuale del Novecento” – con il suo corollario rappresentato dall’illusione di un progresso lineare e pervasivo e dall’idea, trasversale rispetto a posizioni anche opposte, che la politica doveva, poteva dirigere tutto e realizzare l’utopia dell’“uomo nuovo” – è contraddetto non solo sul piano politico e sociale ma anche dai “guasti ecologici che funestano il pianeta”, innescati da scelte dettate da ideologie del tutto diverse fra loro ma accomunate dalla convinzione di poter dominare la natura estendendo ad essa la logica di una statualità onnipotente, capace anche di innovazioni come quella del welfare, ma che alla lunga ha portato al naufragio della politica e quindi alla strapotere del mercato. Oltre che a una sostanziale incapacità di inquadrare i processi in corso: la fine della guerra fredda, ad esempio, “avvenne nella totale inconsapevolezza dei vincitori”, incapaci di comprendere che cosa sarebbe avvenuto dell’ordine mondiale, tradottosi infatti nel suo opposto, in un disordine dominato da conflitti che hanno reso evidente una sostanziale regressione del processo di civilizzazione e di una presenza in esso mai debellata della barbarie, dimensione che non appartiene dunque al passato, a residui di esso in via di superamento, ma è a pieno titolo parte della contemporaneità.
Più della rassegna, sintetica ed efficace, dei processi che hanno caratterizzato il Novecento – dai totalitarismi e al fordismo, dalla massificazione dei consumi a quella dei media – in un intreccio di mutamenti decisivi a livello politico ed economico, sociale e culturale, è nella seconda parte che emerge l’originalità dell’analisi proposta, introdotta da una costatazione amara: “in un bilancio conclusivo, pare che del Novecento ci sia poco o niente da salvare”, mentre ciò che dopo la sua fine è avvenuto e sta avvenendo ci ha “prima spaventati, poi paralizzati (…) trasformando in spettatori, al massimo in testimoni, noi che a lungo c’eravamo sentiti protagonisti”. Unica possibilità è quella di riconsiderare i “capisaldi concettuali del Novecento” che, anche se non ne “è rimasto quasi nulla”, restano riferimenti essenziali per “trovare qualche brandello di nuove definizioni” e “non soccombere allo sconforto e al disincanto”: questo il proposito che anima la secondo parte del libro. A partire dalla necessità di riconoscere che le previsioni formulate dopo la caduta del Muro non hanno trovato conferma né in una globalizzazione economica inarrestabile né nella prospettiva di un’egemonia incontrastata a livello mondiale del modello democratico liberale e neanche nell’idea secondo la quale uno “scontro di civiltà” avrebbe preso il posto di quello fra grandi potenze: “Nel mondo post Novecento, invece, tutto sembra frastagliato e incerto, carnefici e vittime muoiono insieme”. Parallelamente, uno sconvolgimento di pari portata ha tolto al lavoro il suo ruolo cruciale frammentandone le figure e cancellandone ogni tratto collettivo, lasciando dunque gli individui “soli con sé stessi” e disponibili – grazie alla rete, soprattutto – a “scelte di vita fortemente omologate” e a “un esasperato bisogno di affermazione”. Analogamente, dopo l’11 settembre 2001, “il mondo, piuttosto che in direzione della pace, si è avviato verso una endemica furia bellica” in cui il tabu della bomba nucleare è caduto, mentre al “monopolio [statuale] della violenza” è subentrato un “mercato della violenza” gestita da organizzazioni militari e paramilitari e caratterizzata dalla demonizzazione del nemico, che va annientato, non solo sconfitto – com’era nella logica della “guerra simmetrica” combattuta da eserciti regolari al servizio di Stati nazionali intenzionati, formalmente almeno, a rispettare alcune regole del diritto internazionale.
Quanto alla crisi ambientale, i fatti recenti sembrano, da un lato, aver quanto meno messo in mora la crescita di consapevolezza ecologica che s’era avviata e, dall’altro, aver portato a una nuova contraddittoria richiesta – che aveva tuttavia un precedente nella gestione della crisi economica del 2008 – di intervento da parte di quello Stato di cui, in un’ottica neoliberista, forze politiche e finanziarie non avevano fatto che lamentare l’ingerenza: “ritorno dello Stato dunque, ma non dello Stato del welfare”, sul versante interno, e di uno Stato capace solo, su quello esterno, di costruire muri contro l’immigrazione e la povertà – di origine economico-sociale o ambientale che sia. Il tutto oscurato dall’intrico delle retoriche del nazionalismo, del sovranismo, del populismo, del separatismo, che trovano nell’orizzonte della “post-verità” veicolata dalla rete un tramite decisivo.
La conclusione è racchiusa nel titolo dell’ultimo capitolo: “Ancora democrazia”. Dopo le critiche degli anni settanta ai formalismi e alle ipocrisie della democrazia rappresentativa e dopo la sfiducia indotta dall’inquinamento delle sue istituzioni negli anni del terrorismo, siamo giunti a una considerazione della democrazia quale forma “neutra”, e “sfibrata ed estenuata” tanto da giustificare una diffusa “apatia politica” e favorire “leadership carismatiche” così come “accensioni episodiche dei movimenti collettivi”. Una china che ha portato a concepire categorie ossimoriche come quella di “democrazia illiberale” a proposito di diversi Stati, quelli dell’Europa dell’Est innanzitutto. Ma la democrazia è quella che “gli italiani e le italiane si diedero nel 1946”, varando una Costituzione per la prima volta nel nostro paese non concessa dall’alto. È quella democrazia che continua ad essere l’unico riferimento credibile, anche se non un dogma. Un “contenitore” piuttosto, che è nostra responsabilità riempire di “cose buone”. Non cedendo allo sconforto e al disincanto…
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.