Julian Barnes, Elizabeth Finch, Einaudi 2024
“Stava in piedi di fronte a noi, senza un appunto, un libro, o il minimo nervosismo”. La professoressa Elizabeth Finch sa imporre la sua persona, e il suo ruolo, agli studenti, fin dalla prima lezione. Non è sorpresa quella che desta negli studenti, come la Giulia di cui parla Recalcati nel suo L’ora di lezione (Einaudi 2014), non solo perché Elizabeth non è più giovane, veste in modo elegante ma austero e i suoi capelli sono “grigio cenere”, ma anche perché è dichiaratamente, programmaticamente estranea a parlare con passione agli studenti, e non importa che qui si tratti di adulti “fra i venti e i quaranta e rotti”, perché “(reagiscono) alla sua presenza come ragazzini tornati a scuola”.
Parecchi di loro, infatti, sono “già mezzi innamorati” dopo il primo incontro. È dunque un “erotizzare l’insegnamento” il suo, secondo la raccomandazione di Recalcati? Se sì, lo è in un modo molto particolare, perché “non (ha) nessuna delle movenze e dei gesti studiati per sedurre, distrarre o suggerire una personalità forte”. Si impone non attraverso la volontà di piacere e per questa via persuadere: “Visto che non siamo più alle elementari – dichiara infatti, preliminarmente, la professoressa Finch – non intendo dispensare insulsi incoraggiamenti ed elogi sdolcinati”, né si propone di ricorrere ad arti maieutiche (“io non sono Socrate”), il che non implica il ritorno alla comunicazione didattica a senso unico di un tempo: “Ciononostante procederemo per dialoghi.
È il suo “stile”, il suo “esempio” a guadagnarle l’autorevolezza necessaria a “costringere” gli studenti a trovare dentro di loro un “nucleo di serietà”, così creando quel clima senza il quale l’insegnamento resta pratica formale e il professore non si fa maestro. Uno stile, il suo, che comunque non è mai disgiunto dalle peculiarità del carattere personale e quindi incuriosisce, tanto che della professoressa si vorrebbero conoscere gusti e comportamenti messi in atto fuori della scuola, perdendosi in “maldestre fantasticherie” destinate tuttavia a rivelarsi “frettolose e insulse reazioni alla sua unicità”.
Molti ricordano, fra gli altri, almeno un insegnante che ha rappresentato per loro qualcosa di più di quanto il suo ruolo avrebbe richiesto, e quel qualcosa di più si può pensare fosse innanzitutto il modello di adulto che portava in classe, che sottoponeva ogni giorno allo sguardo degli allievi, al loro giudizio: un adulto coerente, soddisfatto del mestiere che fa per quanto ne veda i risvolti negativi, capace di lasciar fuori dall’aula i suoi malumori ma anche di non nasconderli ad ogni costo dietro una maschera neutra e immutabile; un adulto sobrio nei gesti e nelle movenze, com’è appunto il caso di Elizabeth, che “si garantiva la nostra attenzione – la voce narrante è quella di uno dei suoi studenti, Neil, il più sensibile alla sua personalità e al suo modo di porsi – attraverso l’immobilità del corpo e la voce. Aveva una voce chiara, tranquilla”, “era già tutto perfettamente pensato e riponderato nella sua testa”, e anche questo “le guadagnava attenzione, riducendo la distanza tra lei e noi”, e va nello stesso senso il suo non essere “in alcun modo una persona pubblica”, ma “una studiosa indipendente”, con all’attivo due libri “brevi, entrambi fuori stampa”, sicché “la sua persona non era conosciuta a chi non la conosceva di persona”.
Elisabeth Finch si direbbe insomma una di quelle persone, in via di estinzione, che non credono che il fatto che gli altri non sappiano che sanno tolga significato al loro sapere e privi di scopo il loro studiare.
Ne discende, nel caso in questione, una sostanziale estraneità alla propria epoca, il che le consente di essere “nobile d’animo, autonoma di pensiero” e, paradossalmente, “europea”, più di tanti intellettuali che scambiano per una garanzia del loro essere aperti a un orizzonte internazionale quella che è invece omologazione, anche della cultura e delle mentalità. “Guardatevi da quello che la maggior parte della gente desidera”, non esita a raccomandare Elizabeth (“Sono pagata per aiutarvi a pensare e discutere e formarvi pensieri autonomi”) e “cercate di essere approssimativamente soddisfatti di una felicità approssimativa”, dal momento che “l’unica certezza chiara e incontrovertibile nella vita è l’infelicità”. Indispensabile, inoltre, interrogare la “nostra memoria collettiva – che noi chiamiamo storia” e “tener presente quel che sarebbe potuto accadere ma poi non è successo, insieme a quello che è successo davvero”. È in questo spirito che occorre per esempio riconsiderare figure come quella di Giuliano l’Apostata, “ultimo imperatore pagano di Roma, che tentò di respingere la disastrosa onda di piena del cristianesimo”. E al proposito l’autore, fra le molte digressioni di cui il testo è fatto aderendo al succedersi degli argomenti delle lezioni – oltre tutto ricche a loro volta delle frequenti coltissime divagazioni dell’insegnante –, ne introduce una che di fatto assume le proporzioni del romanzo nel romanzo. Anzi, del saggio nel romanzo, visto che occupa tutta la seconda parte. Ne è autore lo studente ormai attempato che, lo ammette finalmente, aveva amato la sua insegnante, ricambiato nei termini di un’amicizia che si è risolta nel nominarlo erede sei suoi libri e dei suoi appunti, anche di quelli su Giuliano, appunto, la cui morte, secondo Elizabeth Finch, può essere identificata come “il momento in cui la storia prese la strada sbagliata”.
Accanto a quello dell’imperatore, un’altra storia percorre quindi questo romanzo: la storia dell’amore di Neil, senza il quale non avremmo conosciuto le peculiarità irripetibili di Elizabeth ma, appunto, si sa: solo l’amore per una persona ne fa davvero percepire l’unicità, e solo il romanzo la può restituire. Solo un romanzo come questo, incurante dell’esilità della propria trama come dei confini entro i quali la narrativa è solita collocarsi.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.