Carmen Pellegrino, Dove la luce, La nave di Teseo 2024 (pp. 196, euro 19)
“Credevamo di essere salvi. Figli di un miracolo (…) migliori e più sensibili dei nostri vecchi: potevamo dedicarci a scoprire qualcosa di bello e più profondo sulla vita stessa”, e invece “paghiamo per il nostro passato, paghiamo il nostro passato. Ma noi di chi saremo il passato? La faccenda della nostra futura anzianità sembrava qualcosa di futuro e trascurabile”, senonché – privi della prospettiva concreta di una pensione – noi nella giovinezza siamo rimasti impigliati. Siamo di fatto la prima generazione che sta peggio della precedente. Chi pagherà per noi”, come noi “paghiamo le pensioni dei nostri padri”?
È di una donna nata alla fine degli anni settanta la voce narrante, di una scrittrice – la cui figura sfuma in quella dell’autrice del romanzo – decisa a “decostruire” le regole del raccontare, a non rispettare l’ordine cronologico e a confondere i piani della storia che intende narrare “a partire da una sparizione che continua a interrogar(la)”. Quella di un economista italiano effettivamente scomparso misteriosamente nell’aprile del 1987, Federico Caffè, che “si rappresentava il progresso come il passaggio a uno stato della società nella quale, prima di tutto, la gente non soffrisse la fame. Riteneva pertanto il lavoro, che andava garantito a tutti, un obbligo eterno verso l’essere umano”: detto in altre parole, un economista di orientamento keynesiano, attento agli ultimi, a chi il meccanismo sociale lascia ai margini. Ed eccolo allora, lui, professore universitario, fare “lunghe camminate nei quartieri più sventurati” e frequentare “la mensa dei poveri”, dove – ma qui la realtà storica si coniuga con quella romanzesca – conosce Milo, uno che “ha perso i suoi risparmi” perché si è fidato di una banca il cui fallimento “ha svelato altarini, occulti sistemi di controllo di società finanziarie, paradisi fiscali all’estero, tutto abilmente orchestrato da Michele Sindona”.
I fili della storia si incrociano: gli anni che segnano il tracollo delle speranze dei giovani sono gli stessi nei quali scandali finanziari e politici fanno sentire le loro conseguenze nefaste sulla vita di comuni cittadini e sono anche quelli in cui un economista democratico e progressista come Caffè ha l’impressione di “sopravvivere a sé stesso, in una profonda separazione dalla vita che si svolge fuori” dalla sua stanza di studioso. Quella da cui si allontanerà senza dire nulla al fratello con cui convive, senza prendere nulla con sé, neanche gli occhiali. Segno inequivocabile, questo, “del suo congedo definitivo. Non leggere, per lui, equivaleva a non esistere”. La crisi seguita alla fine dell’insegnamento per raggiunti limiti d’età? l’ansia per i problemi di salute del fratello? il dolore per la morte di tre dei suoi allievi più cari, uno dei quali ucciso dalle Brigate rosse? la profonda impressione suscitata, pochi giorni prima, dal suicidio di Primo Levi? Ma anche, di sicuro: il senso del proprio decadimento fisico, e intellettuale soprattutto: la paura di perdere la memoria.
Le motivazioni della scelta di Federico Caffè non si sono mai chiarite, anche se – stando al racconto di Pellegrino – la decisione era stata presa per tempo, e lucidamente, con l’aiuto di un allievo fidato. Sta di fatto che, al fondo, doveva esserci la disarmata constatazione di una deriva irrimediabile: “gli ideali vissuti senza cedimenti, la coerenza nello svelare i difetti più evidenti delle politiche economiche che non garantivano la piena occupazione e non impedivano la distribuzione iniqua della ricchezza (…) erano ormai roba vecchia” nello “‘squinternato paese’ che negli anni ottanta si era già incamminato verso altro. Arricchitevi! Era la nuova pubblica esortazione”.
“Non è un caso che Federico Caffè e Primo Levi – non esita ad affermare l’autrice – si siano tagliati fuori dal mondo a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, anzi mi appaiono ora come affratellati da una stessa angoscia: la disumanizzazione di esseri umani per un pezzo di pane e la necessità di dirlo, ma a chi? A chi non vuole più sentire e si volta dall’altra parte?”.
È inevitabile istituire un parallelo fra questo romanzo e La scomparsa di Majorana, di Sciascia: due eventi che si richiamano e ai quali, soprattutto, gli autori attribuiscono un significato che va oltre la vicenda personale dei due studiosi resisi irrintracciabili, a distanza di quasi cinquant’anni l’uno dall’altro. A differenza dello scienziato protagonista del romanzo di Sciascia, però, quello che incontriamo in queste pagine offre di sé un ritratto, dettagliato nei caratteri e ricco di sfumature, che via via si precisa nelle lettere all’amata Adolphine, figura sfuggente, “un doppio onirico”, coincidente con quella di Simone Weil. Analoga invece l’ipotesi già formulata per Majorana, che cioè anche il professore di economia si fosse ritirato in un convento: il libro di Sciascia, del resto, era rimasto sul suo scrittoio con un segnalibro nelle ultime pagine… Ma anche la possibilità del suicidio non poteva essere esclusa, nonostante le ricerche del corpo non avessero dato risultati. Federico Caffè era scomparso, “come non fosse mai esistito”. Continua a vivere invece, nelle pagine di Pellegrino, intercalate – quasi come in un diario – di brani autobiografici e di divagazioni sulle sorti di un Paese che ha portato uomini come Federico Caffè a “negarsi alla realtà”, in “una rivolta senza proclami”, eppure capace di lasciare “una traccia del passato che fa brillare la possibilità del futuro”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.