Marco Cavalli, L’uomo dell’Enciclopedia, Neri Pozza 2024 (pp. 201, euro 18)
Tutti più o meno sanno, o pensano di sapere, qualcosa di Rousseau e di Voltaire mentre, per quel che riguarda Diderot, sarebbero parecchi ad ammettere onestamente che le loro conoscenze non vanno oltre il ruolo che quest’altro grande rappresentante dei Lumi ebbe, insieme a D’Alembert, nella creazione di quell’opera monumentale che è l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri.
A colmare piacevolmente la lacuna giunge questa “autobiografia mai scritta”, sotto forma di un racconto che il Filosofo fa a un suo appassionato ammiratore. “Quando si fa un racconto, lo si fa a qualcuno che ascolta”, sosteneva del resto lo stesso Diderot: qualcuno che ascolta ed ha cura di trascrivere fedelmente quel che ha sentito dall’ormai anziano e malandato intellettuale. Siamo infatti nel marzo del 1784, pochi mesi prima della sua fine, e lui, settantenne, è ben consapevole del proprio stato. “È il mio corpo ad essere stanco, e temo sia stanco di me più di quanto lo sono io di lui”, confessa infatti al suo interlocutore, benché la figlia continui a vederlo “impegnato in una sorta di vertenza cavalleresca con la vita”, per nulla propenso a smettere di lavorare e a fare progetti nonostante si sia ritirato in campagna, a Sèvres, approfittando dell’ospitalità di un amico facoltoso.
Sin dalle prime battute, il tono del suo discorso appare ispirato a un autoironico disincanto: “metà della mia faccia è paralizzata, ma non sono ancora uno di quei vecchi che squalifica al rango di vizio tutto ciò che non potrà fare”, né di quelli che vivono delle glorie passate: l’Enciclopedia “è tutto il contrario di una sciocchezza, ma ha fatto il suo tempo”. Del resto, Madame Sophie Volland, colei che era stata giudice supremo di quanto andava scrivendo, oltre che amante prediletta per una vita, se n’è andata da poche settimane, lasciandolo nell’incertezza della natura del loro legame (“ci siamo piaciuti per la medesima ragione, anche se non ho mai capito quale fosse”), né gli è stato mai chiaro perché non la potesse definire bella, senonché – deve riconoscere – “il fatto di chiedermelo la rendeva attraente”. E anche l’amico D’Alembert è morto di recente, lui che alle prime aspre polemiche conto la loro opera si era ritirato dall’impresa, rivelandosi una delle tante vittime del “terrore di non essere riconosciuti e riveriti”, “una malattia da attori che sta diventando epidemica”, contagiando anche gli scrittori. “D’altra parte – aggiunge Diderot – “se il successo non è tutto, è tutto ciò che conta. (…) Si ha torto a fuggirlo e lo si ha a inseguirlo”…
L’intero racconto – per altro costruito su riferimenti puntuali al pensiero del protagonista – è percorso da osservazioni che lo rendono causticamente attuale: “Viviamo in una società vecchia, che si annoia facilmente e perdona molto a chi la sa distrarre dandole un brivido”.
D’altra parte, non c’è da aspettarsi progressi decisivi dalla politica, dal momento che “il cambiamento conduce sempre al peggio” e “la prima e fondamentale legge della politica consiste nel volere solo ciò che è possibile ottenere”. Il che non induce comunque al quietismo. La censura delle autorità laiche da un lato e, dall’altro, la Chiesa sono avversari contro cui il Filosofo non cessa di argomentare il proprio dissenso: “Ormai i libri contro la religione si sommano a quelli sulla religione anziché cancellarli. Tutta l’annosa faccenda della religione si riduce al seguente enunciato: Dio non esiste, esistono i preti. (…) Se volete dei preti, non volete dei filosofi, e se volete dei filosofi, non volete dei preti (…) se i primi fanno il bene, gli altri fanno il male”: “sbrigativo, se volete; ma su questi temi o si taglia corto o è meglio tacere”, avendo tuttavia presente che “bisogna andare cauti a fare la guerra ai preti: il pericolo di diventare come loro è dietro l’angolo”. A meno che si abbia ben presente che “siamo fatti di atomi; non proveniamo e non andiamo da nessuna parte, Dio è un’invenzione degli uomini: se non la più cretina, certo la più dannosa”.
Non meno taglienti sono le critiche rivolte ai colleghi: “Nessuno, secondo Rousseau, aveva il diritto di mutare opinione senza preavviso; a parte lui, naturalmente”, lui che “una volta lontano da tutti, continuava a sentire la nostalgia della vita conviviale cui aveva rinunciato fuggendo da Parigi” e rifugiandosi in una solitudine dalla quale non potevano uscire che teorie “inflessibili” quanto astratte sulla condotta degli uomini; quanto a Voltaire – con il quale pure la relazione d’amicizia non conosce le ombre generate dallo “schifoso carattere di Rousseau” –, non pare possibile ignorare, fra le sue molte qualità, “un’ambivalenza importuna e perfino una strana mancanza di serietà. Era come quegli architetti che si guardano dall’abitare le case che hanno progettato”.
Le donne poi, interlocutrici non meno essenziali per Diderot, risultano spesso “incomprensibili, se non addirittura pericolose”, e ciò deriva dal fatto che “noi siamo uomini solo se decidiamo di diventarlo. Le donne sono donne dal primo istante in cui aprono gli occhi”.
I dati biografici, esposti senza badare alla loro successione cronologica, entrano nel racconto con naturalezza e non ne interrompono il flusso: dalle preoccupazioni del padre coltellinaio per il futuro di quel figlio dagli interessi smisurati quanto volubili alle relazioni sentimentali che ne costellarono poi la vita; dal favore accordatogli dall’imperatrice Caterina II alle relazioni spesso contrastate con pensatori e organizzatori di cultura attivi nei suoi stessi anni; dalle ristrettezze dei primi tempi a Parigi – ma “il denaro era un problema al quale non riuscivo a pensare con lucidità” – alla condizione di benestante cui era infine approdato. Il tutto inframmezzato da notizie sulla genesi e sulle traversie delle opere principali: non solo il grande laboratorio dell’Enciclopedia, ma anche l’improvvisato montaggio di appunti nei Pensieri filosofici, i dieci giorni di lavoro intenso dal quale uscì il fortunato e censuratissimo I gioielli indiscreti e così via.
Il racconto del Filosofo non ha un vero finale, perché – questa la convinzione del suo autore – “le storie che hanno una fine non la raccontano mai giusta”: “siate il meno pedante possibile quando metterete per iscritto la nostra conversazione”, raccomanda al suo biografo. “Dove non siete sicuro di ricordare, inventate pure; ma inventate con estro, altrimenti a prendere il posto della verità sarà un’invenzione stanca, e nemmeno vostra”.
Resta in mente, a lettura conclusa, l’autoritratto che Diderot ci offre di sé stesso al tempo in cui iniziava il lavoro dell’Enciclopedia: “Entravo nelle botteghe di orologeria, nelle falegnamerie, nei negozi di tappezzeria. (…) Mi è sempre piaciuto studiare la tecnica là dove, come nelle arti, occorre nasconderla affinché funzioni. (…) Un tipografo intento al suo lavoro è uno spettacolo in piena regola, cosa che non potrei dire di tutte le commedie alle quali ho assistito a teatro”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.