Rachel Cusk, Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura, Einaudi 2024 (pp. 226, euro 18,50)
Contemporanei, addirittura precedenti in alcuni casi, rispetto alla sua trilogia, sono questi racconti e saggi della scrittrice inglese. Se in Resoconto, Transiti e Onori (in queste note nel dicembre 2018, giugno 2019 e marzo 2020) si era voluto riconoscere opere che sovvertivano il genere romanzesco, in questi scritti, raccolti sotto il titolo di uno di essi, è difficile stabilire il confine fra la narrazione e la trattazione, fra le storie e le riflessioni.
Un’incertezza che si era sperimentata già leggendo i libri precedenti, i cui contenuti rispondevano alla convinzione che la vita sia un intreccio di storie, nostre e degli altri, e il renderne conto non possa tradursi che in una forma che si definisce man mano la si cerca, passando quindi senza soluzione di continuità dai fatti alle considerazioni da essi suggerite. Ma non è questo il solo aspetto che connette questo lavoro ai precedenti: sotto traccia in quelli, spesso esplicitata in queste pagine, è una concezione del mondo oscillante fra un pacato disincanto e un pessimismo profondo – ora con una prevalenza di quest’ultimo, se mai.
Occorre dire, però, che se ascoltare era l’operazione essenziale che alimentava la scrittura, qui si direbbe sia il guardare a prevalere, soprattutto in pagine come quelle dedicate alla guida, al nostro vivere alternativamente da automobilisti e da pedoni, da attori e da spettatori, spesso insofferenti e incattiviti, di un paesaggio che ormai diamo per scontato, di comportamenti che consideriamo naturali e invece la scrittura – o meglio, l’osservazione attenta da cui la scrittura nasce – sa decifrare come metafora di un determinato modo di vivere, di un’evoluzione non inevitabile. Dettagli, immagini colte al volo, gesti e posture. Questi i materiali di un’analisi della quotidianità che pur assumendo la forma del resoconto autobiografico non decanta in una trama. A dare unità al discorso sono il punto di vista, l’atteggiamento dell’osservatrice, la sua voce, partecipe di ciò che l’attornia, ma insieme distante, capace di applicare a sé stessa quel ritrarsi in una zona separata che in Inghilterra l’espressione “essere mandati a Coventry” evoca, richiamando una condizione di derelizione, di esilio in un limbo – simile a quello creato dai bombardamenti della seconda guerra nella città inglese – nel quale scontare una colpa dall’origine indefinita. Mandare sé stessi a Coventry è allora la scelta di chi nel non sapersi riconoscere negli altri, nel loro stile di vita, nelle opinioni prevalenti non avverte più una sanzione, bensì la possibilità di sentirsi più sicuri, più lucidi. Capaci quindi di lasciarsi alle spalle qualsiasi illusione di dar forma compiuta: a ciò che si scrive come alla propria vita. Di qui un periodare disteso, e pur capace di aprirsi in squarci meditativi e valutazioni radicalmente critiche. A prevalere è comunque sempre la voglia – non la certezza – di capire, senza deprecare: “Le persone sono maleducate perché sono infelici? La maleducazione è come la nudità, una condizione che merita il tratto e la misericordia di chi è vestito?” E da che cosa partire per comprendere le trasformazioni burrascose dell’adolescenza, o il groviglio di sentimenti e di reciproci addebiti che emerge in un divorzio? Forse dal riconoscimento che le storie familiari riflettono la contesa – fra genitori e figli, fra coniugi – del monopolio della narrazione della storia stessa della famiglia…
Non cambia il registro quando, dai fatti della vita, la scrittrice passa a trattare di esperienze culturali e di letture: a guidarla resta sempre l’impegno a mantenersi fedele a sé stessa, a quel che davvero sente e pensa, occupandosi solo di ciò che realmente la coinvolge e la stimola a formulare giudizi precisi, che si tratti della discussa esistenza di una “scrittura femminile” o dell’efficacia delle scuole di scrittura: “un libro non è un esempio di ‘scrittura femminile’ solo perché è scritto da una donna. Può diventare ‘scrittura femminile’ quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo”; e “il moltiplicarsi di corsi di scrittura creativa” – pur essendo evidente che scrivere non è semplicemente una tecnica che, in quanto tale, si possa imparare – non è determinato tanto dall’“illusione degli aspiranti scrittori o scrittrici”, quanto dalla domanda diffusa di trovare spiragli in un “modo di vivere disonesto, che offre troppo poche occasioni di esprimersi” e crea uno “iato” fra discorso pubblico e vite reali che molti sentono il bisogno di colmare.
A Natalia Ginzburg, fra gli autori considerati nelle ultime pagine, è riservato il ritratto che risulta più significativo nel cogliere la freschezza della sua scrittura, capace di fornirci “un nuovo modello per la voce femminile”, e la “cristallina universalità” delle sue convinzioni, espresse sempre con una semplicità che non banalizza e “un attento uso della distanza che non si fa mai distacco”. Un uso nel quale, evidentemente, Cusk si riconosce.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.