Jorge Luis Borges, Sette sere, Adelphi 2024 (pp. 189, euro 14)
Abituati a udire la voce dello scrittore argentino attraverso le formule sorvegliatissime e studiate dei suoi scritti, ci coglie di sorpresa il “Borges orale” che echeggia nelle sette conferenze del 1977 che, fra le innumerevoli tenute in patria, negli Stati Uniti e in Europa, questo libro raccoglie, tanto più per il loro “fascino – come nota il curatore nella sua nota finale –, per la spontaneità, per il tono familiare e spesso ironico, per l’autenticità delle imprecisioni, delle incertezze, e perché no, anche di qualche svista”.
Resoconti delle sue infinite letture, quindi, più che lezioni; impressioni vive di un “lettore edonista” – come lui stesso amava definirsi a dispetto della sua sistematicità – e conclusioni provvisorie ma illuminanti a proposito di opere e di argomenti disparati, a partire dall’opera “infinita” che il poema dantesco secondo Borges rappresenta. Sono allora la genialità dell’uso della prima persona da parte del poeta, la “delicatezza” e spesso la pietà del suo sguardo, la qualità dell’amicizia fra lui e Virgilio ad essere messe in luce, insieme alla capacità di restituire il significato di intere vite nel gesto, nella postura delle ombre che ne furono protagoniste, essendo che – come si legge in un racconto contenuto in L’Aleph – “Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento; il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è”. Altra opera-mondo considerata è Le mille e una notte, con le influenze esercitate sulle letterature occidentali: “Potremmo dire – si spinge ad affermare Borges – che il movimento romantico inizi nell’istante in cui qualcuno, in Normandia o a Parigi, legge Le mille e una notte”.
Più in generale, e al di là di questi monumenti letterari e della loro attribuzione a uno scrittore ben identificato o ad una moltitudine di voci anonime, l’autore – secondo Borges – è sempre impersonale o, se si preferisce, plurale, esito di una stratificazione solo in parte sondabile: “Quando scrivo qualcosa. Ho la sensazione che quel qualcosa esista già. (…) le cose sono già così. Sono già così, ma sono nascoste e il mio dovere di poeta è trovarle”, perché la poesia non consiste nello “scoprire qualcosa di nuovo”, ma nel “ricordare qualcosa di dimenticato”. Per questo “quando leggiamo una bella poesia pensiamo che avremmo potuto scriverla anche noi; che l’avevamo già dentro di noi”, senza tuttavia dimenticare che “ci sono persone poco sensibili alla poesia”, le stesse che, “generalmente, si dedicano a insegnarla”. Oltre alla gradevole leggerezza che si coniuga con uno spessore culturale fatto di citazioni colte e rimandi inaspettati, è l’ironia a connotare queste conferenze, quella dell’autore così come quella degli eventi, persino quando l’oggetto è drammatico. È il caso della cecità di cui Borges fu vittima, il che non gli impedì di esser nominato direttore della Biblioteca Nacional di Buenos Aires, lui che aveva sempre immaginato il Paradiso come una biblioteca e si ritrovò circondato da novecentomila volumi di cui riusciva a malapena a decifrare i frontespizi e i dorsi.
È questo sguardo, penetrante ma mai serioso, appassionato ma sempre governato da un senso della misura che permette a Borges di affrontare anche temi come la Cabbala, o il buddhismo: “una dottrina alla quale ho dedicato tanti anni, e della quale in verità ho capito poco”, se non che si tratta di “una via di salvezza”, non da comprendere nei suoi principi e nei suoi insegnamenti, “perché per quello bastano pochi muniti”, ma da sentire, e da praticare secondo la sua ispirazione, fatta ad un tempo di tolleranza e disciplina.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.