Il destino dei vecchi, l’immoralità del sistema

Didier Eribon, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo, L’orma 2024 (pp. 250, euro 21)

Romanzo-saggio? Saggio narrativo? Autobiografia “collettiva” alla maniera di Annie Ernaux, capace di raccontare la grande trasformazione che negli anni Cinquanta-Sessanta investe anche la Francia, in modo non dissimile da quanto accadde nel nostro Paese? Anche il precedente romanzo di Eribon (Ritorno a Reims, Bompiani 2017) sfuggiva a una definizione precisa, raccordando il racconto di sé all’analisi sociologica, ma in quello era con la figura paterna che l’autore sentiva di doversi confrontare, mentre qui è la madre al centro del racconto.

La madre precipitata nella condizione nella quale la propria indipendenza è perduta: per raggiunti limiti di età, e i figli devono trovare una sistemazione per il genitore non più autosufficiente, soggetto a un processo di degrado, sia fisico che psicologico (“cognitivo” come è in uso dire, trascurando la sostanza esistenziale dell’evoluzione che la vecchiaia impone).

Un altro libro frutto del fenomeno demografico attuale: più che la vita, è la sua ultima, precaria stagione a protrarsi, come ormai comunemente si riconosce, ed ecco allora resoconti di giorni trascorsi in attesa della fine in “strutture” – sempre più raramente si parla di “case di riposo”, men che meno di “ospizi” – nella maggior parte dei casi decentrate rispetto ai centri urbani, finalizzate a quella che di fatto è una segregazione, più o meno confortevole. Anche la “struttura” nella quale il protagonista e i suoi fratelli trovano posto per la madre si trova in un’“area periferica”, vicina alla città in cui lei ha sempre abitato e loro hanno vissuto prima di lasciare la famiglia, ma entro “uno scenario freddo, disumanizzato”. Nel lasciarvela, disperata, al figlio scrittore – che non potrà dimenticare quel momento – si stringe il cuore: ” Ma che stavamo facendo?”, si chiede. La scelta, per quanto plausibile e diffusa, per quanto operata in buona fede – per il suo bene – e accompagnata da espressioni di affetto e da promesse – verrò a trovarti spesso –, non cessa di rivelarsi per quello che è: un “dramma rituale”, una rottura radicale, uno sradicamento dal passato e dal presente. Riconoscerlo, non permettere che questo passaggio nella storia di molti vecchi sia consegnato al silenzio, è uno degli scopi di questo libro, nato non a caso – come l’autore tiene a sottolineare – nella scia della Terza età di Simone de Beauvoir e della Solitudine del morente di Norbert Elias, ma anche delle suggestioni che provengono dalle analisi di Foucault – di cui Eribon è stato biografo – che lo portano a ravvedere nel modo in cui si trattano i vecchi una prassi molto vicina al “rinchiudimento” dei folli in età moderna. Tanto più che il definanziamento delle “strutture” pubbliche, la ricerca di redditività in quelle private, lo sfruttamento e il sottodimensionamento del personale, indotto perciò a comportamenti spersonalizzanti se non, di fatto, violenti nei confronti degli “ospiti”, sono fattori che gravano su questi luoghi facendone, all’insegna di una “sociabilità imposta”, sedi di una nuova, definitiva solitudine, contesti nei quali si rivela una sostanziale “immoralità del sistema”, cui non sfugge l’occasione di profitto offerta dall’“oro grigio” – come cinicamente qualcuno definisce le crescenti opportunità economiche offerte dall’assistenza ai vecchi.

Non si autoassolve, in questa denuncia, l’autore: sa ben rintracciare i segni della sottile ipocrisia, dell’“avarizia di tempo” che hanno connotato la sua relazione con la madre nei suoi ultimi mesi, ma la differenza fra chi resta libero e chi invece no, fra il figlio e la madre si innesta su un’altra antica presa di distanza: anche qui in sintonia con Ernaux, e in continuità con il romanzo precedente, Eribon prende atto della sua identità di “transfuga di classe”, intellettuale nato da una famiglia operaia, rispetto alla quale il dislivello culturale, segnato dal maschilismo del padre come dal razzismo della madre, è andato crescendo. Ma questo non impedisce di mettere a fuoco, in pagine fra le più efficaci, il significato e le conseguenze della scomparsa di quella che era stata non solo la depositaria delle genealogie familiari, ma anche l’ archivista della giovinezza del figlio”: insieme alla memoria familiare, è anche quella individuale a risultare incrinata dalla morte della madre, custode fino all’ultimo della memoria della “socializzazione primaria” del futuro scrittore, quell’epoca della vita grazie alla quale e nonostante la quale è divenuto quel che è.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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