Hervé Kempf, Il nucleare non fa bene al clima, Einaudi 2024 (pp. 64, euro 10)
“L’energia nucleare non emette anidride carbonica; l’anidride carbonica fa male al clima; dunque l’energia nucleare fa bene al clima”: un “sofisma”, come sostiene l’autore – giornalista ambientalista –, o una verità di cui l’avanzare della crisi climatica obbliga a prendere atto? Che sia l’uno o l’altra, occorre entrare nella questione dell’opzione del nucleare oltre quello che i media ci offrono. Di qui l’utilità, in ogni caso, di questa cinquantina di pagine: ci si trovano informazioni aggiornate e valutazioni conseguenti, non opinioni generiche e petizioni di principio, e il fatto che il discorso si riferisca soprattutto alla situazione francese – vista anche la sua contiguità alla nostra – non limita la portata del discorso.
A proposito del carattere straordinario, e dunque irripetibile – o difficilmente ripetibile – di incidenti come quello di Černobyl e Fukushima: possiamo, dopo un evento come la pandemia, pensare ancora che eventi imprevisti non siano da mettere in conto? Quanto ai tentativi dei governi e degli enti competenti di relativizzare le conseguenze degli incidenti occorsi a centrali nucleari, non mancano i dati – qui accuratamente riferiti – che smentiscono clamorosamente il dimensionamento dei danni per la salute e quelli conseguenti al forzato trasferimento degli abitanti, il cui “trauma dura decenni”, senza parlare poi del protrarsi nel tempo del disastro in termini di perdita di biodiversità, di blocco della produzione agricola e delle altre attività, di costi necessari per il ripristino, ove possibile, di condizioni di abitabilità e di produttività. Il tutto moltiplicato in territori densamente antropizzati, com’è ovvio.
Leggere pagine simili, in cui il termine nucleare distingue un tipo di energia, non può far pensare al significato militare cui i politici si richiamano ormai quotidianamente, ma la guerra in corso in Europa ha anche reso attuale la circostanza che impianti come quello di Černobyl e di Zaporižžja “costituiscono possibili bersagli o mezzi per esercitare pressioni sul Paese sotto attacco”. Il che vale anche per gli altri Paesi, soprattutto dopo l’11 settembre 2001.
Un aspetto lasciato in ombra è poi quello riguardante il nesso fra sicurezza delle centrali nucleari, in misura notevole dipendente dalla disponibilità di risorse idriche, e riscaldamento climatico, che quelle risorse intacca e può compromettere con eventi estremi, o di colpo moltiplicare con inondazioni e mareggiate.
Fragilità, per alcuni versi inevitabile, degli impianti; criticità verosimilmente taciute o minimizzate dalle industrie del nucleare, nonché dalle forze politiche nucleariste; problemi irrisolti relativi alla gestione delle scorie; levitazione largamente prevedibile dei costi di costruzione di nuove centrali; carattere aleatorio, e interessato, dell’esclusione della possibilità di incidenti con l’invecchiare dei macchinari e dei congegni: queste ed altre le circostanze che problematizzano l’adozione del nucleare, cui si deve aggiungere la considerazione – solitamente rimossa dai nuclearisti per forza – che i tempi necessari all’attivazione di nuovi impianti è tale da rendere marginale il contributo che essi potrebbero offrire alla riduzione delle emissioni di gas serra. Il che conferma la validità – economica, oltre che ambientale – dell’opzione rivolta ad energie rinnovabili, il cui sviluppo sarebbe appunto gravemente ostacolato da un’adozione generalizzata del nucleare, che sottrarrebbe risorse decisive. Non per caso “a livello mondiale il nucleare è in declino” e “la capacità nucleare globale sta calando”, e del resto l’IPCC, il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, attribuiva un peso limitato” a questo tipo di energia, prevedendo la riduzione della sua produzione nei prossimi decenni (almeno fino al vertice di Dubai dell’anno scorso, dove 22 Paesi hanno aderito all’inclusione del nucleare fra le fonti di energia necessarie a ridurre le emissioni…).
Al di là di ogni valutazione specifica, è bene tener conto del fatto che “il nucleare è antitetico ai principi di una società democratica (…) perché è una tecnologia ingombrante e centralizzata, che implica strutture di controllo verticali e poliziesche proprio per il pericolo che rappresenta”. Ma c’è di più: quella del nucleare è l’opzione tipica di una società che vuole credere, o fingere di credere, in una crescita illimitata. O, in altre parole, “il nucleare è un paravento del conservatorismo dei ricchi”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.