Mariagrazia Fontana, È questo che volevo?, temposospeso 2024 (pp. 210, euro 20)
Lasciare che la vita ti venga incontro, che ti porti quel che ha da darti; oppure: sentire che la devi costruire, la vita, sapendo che ci troverai quello che ci hai messo (e altri ci hanno messo per te, che te lo dovrai tirar dietro per il resto dei tuoi giorni). Poi, si sa: il Caso, versione laica della Provvidenza, o del Castigo, il mestiere che hai finito col fare, gli amori, fortunati o tossici, la salute e la corrosione degli anni… Ma anche qui: saperli governare perché si è di quelli che sanno come va il mondo, oppure farci i conti, arrovellarsi a capire quanto ci hai messo di tuo o se invece proprio non te lo meritavi, e sforzarsi di accettare senza necessariamente rassegnarsi.
Per farla breve: da una parte, ci sono quelli che non cercano perché credono fieramente, o si sono ridotti a credere, che non ci sia niente da trovare, o perché, arrivati a una certa età, si sono persuasi di aver trovato – lasciamo stare quelli che han trovato davvero: sono pochissimi, se ci sono –, e, dall’altra parte, quelli che invece non smettono di cercare, di cercarsi.
Li si riconosce, da prese di posizione e renitenze, gesti e rinunce, parole e silenzi, attitudini e avversioni. Scrivere, per esempio: lo fanno – non esclusivamente, ma in netta prevalenza – i secondi: quelli che cercano, quelli che sotto sotto pensano che la vita non sia solo quello che capita giorno dopo giorno e occorra qualcosa per stanarla, o qualcosa per farla ripartire quando ha rivelato il suo vuoto di fondo. Qualcosa come la scrittura.
(“La letteratura – diceva Italo Calvino – non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”, quelle che non si possono dire e perciò si scrivono).
Perché questa premessa? Perché questo libro è la dimostrazione di come scrivere, ossia sentir la necessità di raccontare – anche se non si sa bene a chi (o forse proprio per questo) – sia il frutto di un modo di stare al mondo, un modo che si declina in versioni disparate, in stili diversi, ma che s’incentra su una passione fondamentale, si conforma a una scelta fatta non si sa bene quando, ma sicuramente molto presto: quella di non smettere neanche un giorno di interrogarsi sul senso della propria esistenza, non filosoficamente, ma nei fatti, in quel che si fa e non si fa, si dice e non si dice.
Sono diverse le coprotagoniste di questo romanzo: cinque donne (o sei, se consideriamo anche chi le ha messe al mondo: l’autrice, a suo modo un personaggio della vicenda). Donne che – complice certamente l’atmosfera degli anni Settanta, dal sogno del grande cambiamento al femminismo – hanno preso in mano la propria vita fin dai tempi dell’università e, a differenza delle proprie madri, hanno individuato, hanno potuto individuare, nella sfera pubblica il luogo di questo loro impegno. La scelta della professione quindi: tutte han fatto medicina, ma un conto è stato poi fare il medico di base, come Bianca, o la neurochirurga, come Ester; la patologa, Antonia, o l’odontoiatra, Odilia. O non riconoscere mediazioni fra le proprie convinzioni e la pratica che si sceglierà: è il caso di Pia, rivoluzionaria professionale, che riprenderà però a un certo punto la strada interrotta quando, in assenza di rivoluzione, ricalibrerà la sua vocazione facendosi psicoterapeuta.
Donne arrivate, dunque, donne in carriera e poi professioniste brillanti e ben pagate? Sì, oggettivamente, ma anche no: aver individuato nel lavoro una dimensione essenziale della propria esistenza non ha colmato, né tanto meno risolto, le loro vite. In primo luogo proprio perché sono donne: diventare padrone della propria professione è una strada tortuosa, lastricata di tensioni, offese, umiliazioni a volte, per alcune – come Ester, più che per altre. Ma, appunto, non tutto si risolve nel pubblico: anche il privato presenta crepe e asperità, innanzitutto nell’esigenza inaggirabile di coniugare lavoro e famiglia e, più nel profondo, l’autonomia conquistata con il desiderio di maternità. Un privato segnato per altro da dolori antichi, alimentati da un passato che non passa – è il caso di Antonia –, o riserverà attriti e ambivalenze stridenti, dolori e delusioni nella relazione con il compagno della propria vita – e qui è Bianca soprattutto a vivere questi risvolti amari, tendenzialmente distruttivi. E non solo con il proprio partner: nel rapporto con la figlia emerge l’ombra che la relazione con la propria madre non ha smesso di proiettare, a proiettare nei due sensi: anche la figlia rimanda alla madre un’immagine problematica, se non perturbante. Senza contare che un’altra ombra può gravare sino a rischiar di soffocarla sulla vita della figlia: quella del padre – caso limite, quello di Antonia. Ma sono i genitori più in generale, il patto che li ha contraddittoriamente – perversamente verrebbe da dire, in certi casi – tenuti insieme a condizionare dal di dentro la vita di chi han fatto nascere, come accade a Odilia.
Eppure, ciascuna di queste donne – a suo modo coerente con la scelta originaria che le connota – sa venire a capo dei vicoli ciechi che le hanno attese al varco, e all’amarezza che porta ciascuna di loro a chiedersi, in un bilancio impietoso della condizione raggiunta, se ciò che hanno ottenuto, il punto cui sono arrivate era davvero quel che volevano.
La loro stessa amicizia, la qualità della loro relazione costituisce, al di là dell’effettiva frequentazione, una risorsa essenziale, insieme ad antidoti, per così dire, che la propensione individuale può suggerire. E qui torniamo là dove eravamo partiti: lo scrivere.
Lo scrivere che sa mettere a fuoco l’Io plurale che siamo, dandogli il volto di personaggi diversi, superando confini pretestuosi fra i generi – storie di vita, autobiografia, autofiction –, facendo risuonare voci che si intrecciano a quella del narratore, spesso in un disinvolto, senz’altro voluto, gioco di specchi nel quale i soggetti si sovrappongono, chiedendo al lettore di affidarsi al filo del discorso, senza badare troppo a chi lo pronuncia.
Lo scrivere che sospende il dominio dell’Io – saldamente aderente ai doveri, alle scadenze, alla considerazione opprimente e riduttiva della catena delle cause e degli effetti – per aprirgli orizzonti e restituirgli sottofondi che rivelano uno spessore altrimenti sepolto, in questo solidale con esperienze diverse come la corsa, l’andare per montagne, il dialogare – sì, il dialogare – con il proprio cane.
Lo scrivere che – anche avvalendosi suggestivamente della ‘lingua due’ dell’autrice, quella della medicina – sa dire anche dello sgomento insopprimibile, del confronto inevitabile con l’invecchiamento. E con la morte. Con il dolore insondabile di quella degli altri che si amano, e con il presentimento, inaudito sempre, della propria.
Un romanzo di donne, scritto da una donna, in conclusione: calza a pennello l’osservazione che una scrittrice, non a caso, Rachel Cusk, faceva nel suo ultimo libro (Coventry, in queste note nello scorso luglio): “un libro non è un esempio di scrittura femminile solo perché è scritto da una donna. Può diventare scrittura femminile’ quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.