Marco Revelli, Questa sinistra inspiegabile a mia figlia. Dialogo immaginario con un’adolescente, Einaudi 2024 (pp. 164, euro 16,50)
Pare che siano le figlie, più dei figli, a rendersi disponibili a colloqui con i genitori su questioni impegnative come l’Olocausto o il razzismo: sono adolescenti a interloquire sia nel caso di Annette Wieviorka (Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi 2014) che in quello di Tahar Ben Jelloun (Il razzismo spiegato a mia figlia, La nave di Teseo 2018). Lo stesso avviene – stando al titolo almeno –, a Marco Revelli, spiazzato dalla domanda della figlia, appunto: “Ma tu stai ancora lì?”, a Sinistra, intende, e lui prova a spiegarle perché si intestardisce “a stare in un posto che non c’è più”, “un sistema di idee e di promesse tradite ogni giorno da quegli stessi che dicono di volerle ancora rappresentare”.
Ma deve preliminarmente prendere atto di una sorta di rimprovero: quel lessico famigliare imparato fin dalla prima infanzia, quell’insieme di valori” che le sono stati trasmessi l’hanno resa ‘infelice’. Diversa e separata dagli altri e dalle altre della sua età”. E infelice è anche lui, il padre, affetto della “sindrome melanconica di chi avverte di viaggiare in direzione ostinata e contraria rispetto a un corso del mondo che non consente alternative”.
Con un avvio simile, il dialogo non può certo mirare a persuadere la ragazza, la quale, da parte sua, mette in atto una sorta di “maternage adolescenziale”, nella consapevolezza di una solitudine comune, trasmessa da una generazione all’altra “come fosse una tara ereditaria”, una malattia che non passa: essere, restare di Sinistra.
Lui le racconta allora della sua “primissima formazione”, della sua solitudine in una “città bianca” qual era Cuneo, e poi della “felicità pubblica” del ’68, della convinzione di essere dalla parte giusta: a Sinistra…
Sì, ma, “quanto è durato?”, lo gela la figlia: “i fuochi a cui vi siete scaldati voi non sono i nostri. Anche perché sono finiti quasi subito, e col freddo che è venuto dopo non avete mica fatto i conti, voi.”
Il narratore non si arrende: render conto alla figlia – non importa se metaforica, come ci avverte la quarta di copertina – è l’occasione di un’autobiografia politica, intellettuale, sentimentale, un’autobiografia collettiva che non esita a risalire ai “‘fondamentali’ filosofico-politici che sottendono alla polarità Destra/Sinistra” e quindi agli atteggiamenti dell’“uomo di Sinistra”. A partire dal suo “perenne esilio dal proprio tempo vissuto”, dalla sua inquieta diffidenza verso quel che c’è in funzione di quel che ci dovrebbe essere, dalla sua speranza in un futuro diverso, quel futuro che a un giovane di oggi appare gravato di “(oscure) minacce”, lontanissimo dal poter essere immaginato nella luce dell’Utopia, di quel “non ancora” che non significa “mai (ma che è tanto difficile evocare oggi, tanto più se non si vogliono ignorare le “macerie” accumulate dalle “Sinistre di potere” nel corso del ’900, e da quelle che al potere non erano negli anni del “terrorismo ‘rosso’” e del nichilismo in cui l’utopia di fatto si risolse, bruciando – nella droga, molto spesso – una generazione). Altro paesaggio quello degli anni ’90, che – mentre si profilava l’estinzione del mondo della grande fabbrica e la dimensione stessa del lavoro, operaio e non solo, si ridefiniva – videro molti militanti del decennio precedente cadere nella tentazione del Potere (politico, economico, mediatico) e farsi protagonisti della lunga “transumanza” del Pci “verso la ‘responsabilità’ e poi l’estinzione”. Senza dire di quella sorta di “inversione morale” di cui il decreto Minniti in materia migratoria segnò una soglia drammatica, una cesura “tra la storia lunga della Sinistra e il suo presente vuoto”, fra la cultura politica dei “rivoluzionari di professione” e quella degli “amministratori”. Consci certo, questi ultimi, della necessità di concretizzare le promesse di cambiamento, ma di fatto insofferenti, o ormai estranei, all’essenziale principio che “una Sinistra, quale che sia, senza una qualche, anche tiepida, carica utopica, senza la promessa di un ‘altrove’rispetto all’esistente, non esiste. È un corpo inerte”.
E qui, padre e figlia si guardano, ugualmente “sospesi” in una domanda: perché “il tempo a un certo punto si è chiuso su se stesso”, in un “presente assoluto”, “di fronte a un futuro immaginabile solo come ‘fine’”? perché domina l’“indistinto chiacchiericcio di un generico risentimento senza oggetto sociale”? perché la “Sinistra di nuova generazione” – come quella del G8 di Genova, nel 2001 – è stata soffocata in culla?”
È però un’altra la domanda che la ragazza oppone ai quesiti del padre e di quelli come lui, uomini di Sinistra “sotto i cui ideologismi progressisti si sono addensati gli alibi alla materiale devastazione del pianeta”: “come osate” parlare a giovani cui avete rubato il futuro?
La risposta, sempre che una risposta sia possibile, deve risalire alla fonte della “trappola” in cui la Sinistra è caduta prestando fede alla religione del Progresso, all’equazione che “identifica senza residui sviluppo tecnico e sviluppo umano e sociale”, stigmatizzando ogni critica con l’assimilarla a reazionarie prese di posizione contro la “modernità” e passando sotto silenzio – o apprezzando formalmente ma di fatto fraintendendo ad arte – le critiche di intellettuali, fra loro diversi, come Hans Jonas o Ulrich Beck, accomunati da un’interpretazione della modernità quale “Giano bifronte”, promotore di benefici sostanziali e insieme di minacce letali.
Ma qual è il nesso fra il pensiero critico pur rintracciabile nella vasta area del progressismo e la solitudine dei giovani che protestano, spesso in modi spettacolari, contro il disastro ambientale? Fra i riferimenti culturale e politici del padre e l’angoscioso sentore di un pericolo imminente e globale della figlia? Una domanda, questa, che non può che rimanere aperta, e sembra lascar affiorare un condiviso, anche se diverso nei suoi presupposti esperienziali e negli orizzonti immaginabili, senso di solitudine e disorientamento: “Provo a tirar le somme di questa lunga conversazione. E mi rendo conto che (…) più parlo, più mi sento smarrito. Avrei dovuto spiegare a mia figlia che cos’è la ‘Sinistra’, e mi scopro incapace di saperlo io stesso, per il banale fatto che quanto più (…) sembra necessaria, tanto meno appare credibile”. E quello che oggi sembra prevalere è una sorta di “sonnambulismo”, per cui “siamo tutti in perenne stato di anestesia. Padri e figli. Giovani e anziani. Colpevoli e innocenti”. Solo un varco sembra aprirsi, e riunire età diverse, per confusi e spaesati che siamo: “l’intollerabilità” di questa “Destra tragicamente farsesca”. Più in generale: “lo scandalo della disuguaglianza” che essa alimenta.
“È esattamente di qui (…) che vorrei ‘lavorare’ con mia figlia, per cercare di ritrovare un punto d’ancoraggio che ci consenta di non perderci nel vuoto della non-scelta”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.