Jon Fosse, Un bagliore, La nave di Teseo 2024 (pp. 76, euro 13)
La noia l’ha indotto a mettersi in macchina e partire, una noia greve, irrimediabile: “Il pensiero di tutto quello che avrei potuto fare per contrastarla non mi procurava nessuna gioia così avevo agito”. Non ha una meta, né ha in mente un itinerario. Arrivato alla fine di una strada forestale, dove non c’è spazio per girare, si impantana. È risaputo: chi viaggia porta con sé innanzitutto sé stesso, e il proprio stato d’animo: “Mi sentivo vuoto, come se la noia si fosse trasformata proprio in quello, in un vuoto. O piuttosto in angoscia, perché avvertivo dentro di me una specie di paura mentre, lo sguardo assente e fisso in avanti, vedevo in un nulla.
(…) Davanti a me c’è il bosco, e solo il bosco. (…) Di che cosa avevo paura? Perché avevo paura?”. La selva oscura, la via smarrita, la paura… È una rivisitazione della grande allegoria dantesca che questo racconto propone? Anche, ma il suo scopo è raccontare l’indicibile: la morte. Non quella di un altro. La propria. Indicibile, appunto. Raccontabile quindi non attraverso previsioni circostanziate e ragionamenti attendibili, ma solo attraverso la letteratura, capace di visioni oniriche, metaforiche, volutamente irrisolte.
È un uomo che vive solo, il protagonista, solo e trascurato, avvilito o solo confuso – l’autore non ci dà elementi per stabilirlo – al punto di non sapersi spiegare i propri atti (“Cosa mi è saltato in mente? Per quale motivo ho agito così?”). Sembra istituirsi una corrispondenza tra lui e la casa che ricorda di aver visto mentre arrivava lì: un edificio fatiscente, in rovina, disabitato. Dovrebbe cercare qualcuno che gli dia una mano a smuovere l’auto. Dovrebbe, lo sa, se lo ripete, e finalmente prende un sentiero che spera lo porti dove trovare qualcuno e chiedergli aiuto, ma si ravvede: “come mi era potuto venire in mente di trovare aiuto nel bosco, in quella selva oscura”, e intanto si è allontanato dalla macchina, nel freddo, nel buio sempre più fitto: “A meno che non succeda un miracolo, morirò assiderato. Forse è proprio per questo che sono entrato nel bosco, perché volevo morire assiderato. Eppure io non voglio. Non voglio morire. O forse è proprio quello che desidero. Ma perché vorrei morire?” Una solitudine che è, anche, estraneità a sé, opacità dei propri sentimenti: “Sì, ho paura. Ma è una paura tranquilla. (…) Ma ho davvero paura? Non è solo una parola?”
La tensione cresce sino ad arrivare vicina a un punto di rottura quando un elemento inaspettato modifica la situazione: una “sagoma bianca” sembra avvicinarsi, indistinta, “un bagliore splendente”, “simile a una persona”, ma “non è né uomo né donna”. È “un’entità splendente”, vicina ormai, “tanto da poterla toccare se non avesse paura di insudiciare qualcosa di così bianco”… È quella a posargli una mano, o qualcosa come una mano, sulla spalla, e poi ad abbracciarlo, per poi scomparire. È stata un’allucinazione? si chiede l’uomo, guardando a un cielo notturno nel frattempo rasserenatosi, ma deve ricredersi: alla sua domanda – ci sei? c’è qualcuno? – una voce risponde: “sono qui, sono sempre qui, sempre sono qui”. Una voce “esile e fragile” ma calda e profonda, “come se in essa ci fosse qualcosa che si potrebbe chiamare amore”; una voce che tuttavia si zittisce, riprecipitandolo nella solitudine del chiarore lunare e del gelo del bosco, una solitudine che è come il coronamento della sua condizione: “Vivo solo, dunque nessuno sentirà la mia mancanza e, se qualcuno dovesse sentirla, non saprebbe comunque dove sono”. Ma ecco, l’“entità”, mentre lui ha ripreso a camminare per cercar di uscire dal bosco, si fa risentire: non lo sta seguendo, lo sta accompagnando ma non può dirgliene la ragione. Solo acconsentire a dirgli chi è: “sono chi sono”. Una risposta che l’uomo pensa di aver già sentito, o letto “da qualche parte”…
Chi sono le due persone, la copia di anziani che ora incontra? Stenta a riconoscerle, incredulo. Sono i suoi genitori, che non saprebbe dire quando ha visto l’ultima volta. Sono venuti a cercarlo in quel bosco e anche loro si sono persi perché, contrariamente a quanto la madre credeva, neanche il padre sa come uscirne. Si guardano, in silenzio, finché le nuvole coprono la luna e non riescono più a vedersi: dubita di esserseli solo immaginati, anche gli sembra di udire ancora le loro voci di vecchi coniugi,la madre che rampogna il marito, lui che risponde a monosillabi, evasivo… È uno dei momenti più stranianti questo del figlio e dei genitori che vagano cercandosi per uscire insieme dalla “selva oscura”. A interromperlo è un nuovo incontro, o un’allucinazione? “Un uomo vestito con un abito nero che mi sta guardando, scalzo nella neve, e, sul lato opposto, di nuovo l’“entità bianca”, “la sagoma scintillante”: “Tutto questo va oltre la mia comprensione, come si suol dire” – deve riconoscere l’uomo. “Ma parlare di comprensione, sì, visto come sto in questo momento, sì, non sembra molto sensato, no”: il lettore è avvertito. Non cerchi di riconoscere le figure di questo apologo, di decifrare le intenzioni dell’autore: “Non è neppure qualcosa di comprensibile – sembra infatti dirci per bocca del suo personaggio – , è qualcos’altro, forse qualcosa che si può solo esperire, ma che in realtà non succede”. Superfluo dunque cercare nel finale una chiave che risolva l’enigma di questo breve, onirico, coinvolgente racconto che ‘gioca’ sino alla fine con immagini della Commedia per proporci però atmosfere nordiche che fanno pensare se mai a Bergman, a quello del Posto delle fragole in particolare.
Un racconto che possiamo leggere per avvicinarci – se ancora non lo abbiamo fatto – alle opere maggiori dello scrittore norvegese che lo scorso anno gli sono valse il premio Nobel.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.