Adriano Favole, La via selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza 2024
L’antropologia “studia le culture umane, le loro relazioni e le loro trasformazioni: le culture di altri continenti (…) e le culture popolari, lontane o domestiche che siano (…), le culture urbane e quello rurali. Le culture più tradizionali e conservatrici e quelle digitali (…), le culture egemoni e quelle subalterne. Il qui e l’altrove”. Coerente con questo presupposto, l’autore ci invita a un andirivieni fra Liguria e Oceania, Alpi e Africa, ma non solo: il confronto coinvolge lui stesso, l’antropologo che si occupava solo di significati e simboli umani e quello che invece s’è reso conto che lo studio non può ignorare i non umani con cui, pure, trascorriamo le nostre esistenze”, essendo noi “il prodotto di scambi ininterrotti con l’ambiente che ci circonda”, popolato di “esseri ‘incolti’ che vivono, cioè, fuori dai confini delle culture intese come spazi simbolici”.
È la contrapposizione fra Natura e Cultura ad aver finora colonizzato le menti, non solo quelle degli antropologi. Questo libro dunque “è un invito a guardare fuori di noi” prendendo in considerazione “le umanità che rivalutano l’incolto. Un invito che si pone esplicitamente nella scia delle ricerche di Philippe Descola (di cui queste note si sono occupate nel gennaio del 2022) nel riconoscere che “noi siamo cultura, ma la nostra cultura è “circondata, assediata, attraversata dall’incolto”, cioè “da vite non umane” anche se “viviamo su un pianeta completamente addomesticato”, ma da poco: “il trionfo della cultura umana nei destini del pianeta è un fenomeno recente. Per gran parte della storia dell’umanità, le culture sono state esili radure ritagliate in un mare di incolto. (…) Produrre cultura ha significato per i nostri antenati, oltre a sviluppare il linguaggio e il pensiero simbolico, disboscare in senso letterale” per mettere a coltura, per sviluppare l’agricoltura che “non è solo un atto umano, ma è il frutto di un incontro e della convivenza fra umani e non umani”, in una valle piemontese come nelle isole Trobriand.
Senonché, il termine cultura ha ben presto assunto un significato escludente e incolti sono diventati tutti coloro che, pur parte di una stessa società, non hanno le conoscenze, i modi, la mentalità dell’èlite, o coloro che appartenendo a popoli i cui usi divergono da quelli in auge nel popolo colonizzatore che ha affermato la sua supremazia, sono definiti selvaggi, o primitivi. “Popoli indigeni” o autoctoni” preferiamo dire oggi ma, ecco il punto, siamo certi che le società che non hanno seguito l’Occidente “nella costruzione di un mondo arrogante e distruttivo [non] avessero scelto di cercare una condizione di equilibrio e di convivenza con l’incolto e le sue forze?” Gli Inuit, per esempio, “convivevano con l’incolto, senza combatterlo e senza tentare di sottometterlo” e tantomeno distruggerlo, senza per questo essere” in balia della natura più di quanto non lo siano le società contemporanee”, fondate sul mito della rivoluzione agricola del neolitico come evento che ha inaugurato la civiltà e ha dato inizio alla storia segnando la vittoria della cultura sulla natura. Gli studi più recenti sulla preistoria dicono che in realtà l’agricoltura impiegò, nella stessa Mezzaluna fertile, più di tremila anni ad affermarsi e che “una fetta molto consistente di umanità rimase ‘affettuosamente’ legata a forme di acquisizione delle risorse dall’ambiente”, raccogliendo e cacciando, senza scegliere ‘agricoltura in modo definitivo ed esclusivo. Il che non implica che la sua diffusione sia da intendersi come vero avvio dell’Antropocene (secondo la tesi di Timothy Morton): non essa, ma “l’imporsi di una visione dell’altro umano (i primitivi, i selvaggi) e dell’altro non-umano (l’ambiente) come ‘cose’ da sfruttare, risorse da estrarre, [ha segnato] l’inizio dell’Antropocene”, con “la creazione di un muro tra natura e cultura”. È questa la tesi di Amitav Ghosh, autore puntualmente richiamato in ogni discorso sulla crisi ecologica (e in queste note nel settembre del 2017), mentre meno frequente è il riferimento a Gilles Clément, “uno dei pochi ad aver tematizzato le questioni dell’incolto” con la sua nozione di “terzo paesaggio”, “fatto di spazi residuali”, “economicamente marginali”, “scarti” prodotti dalla crescita urbana, solitamente letti secondo la categoria del degrado e invece vero e proprio “territorio di rifugio per la diversità biologica”, “giardino planetario” che si può interpretare come “l’inconscio dei nostri paesaggi vitali”. Realtà di cui si è invece ben consapevoli in altri paesi, come il Giappone, nel cui immaginario “lo spazio coltivato dell’umano e lo spazio selvatico della montagna” si pongono in un rapporto di complementarietà, non di opposizione fra il civile e l’incivile, il puro e l’impuro. Con ciò offrendo una lezione più che mai attuale, perché “la cultura depurata dell’incolto e dal selvatico è una cultura ‘pura’ che ritiene, illusoriamente, di poter fare ameno dei non umani. (…) Ma i “frutti puri”, come scrisse James Clifford – uno dei maggiori antropologi contemporanei – in genere ‘impazziscono’.
E proprio questo – conclude Favole – “è quanto sta succedendo con il riscaldamento globale”. Unico antidoto, certo non garantito, “reimparare a convivere con le altre forme di vita: il “termine chiave” che attraversa questo libro, incolto, “racchiude un senso di inattività, il fermarsi, che non è però rinuncia o rassegnazione, ma l’affidarsi ad altre progettualità (…). Farsi da parte sapendo che ci sono progetti di ricostruzione anche oltre l’umano”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.