Carlo Simoni, Diserzioni, Castelvecchi 2024 (pp. 361, euro 27)
Il romanzo sarà presentato, con letture di Daniele Squassina, alla Nuova libreria Rinascita di Brescia venerdì 22 novembre alle 18.
Scomparire. Deliberatamente, con determinazione.
Non per annullarsi, ma per realizzarsi, finalmente. Non per segnare una cesura nella propria vita, ma anzi per recuperarne l’unità riprendendone il filo che le vicende vissute, gli obiettivi rincorsi, le cadute nel conformismo avevano logorato, senza riuscire però a troncarlo: non ripetere, ma ripartire da ciò che di più vero è rimasto distinguibile nella propria vita.
Ma non sembra possibile, questo ritorno che è cambiamento, se non rinunciando alle relazioni che si sono tessute. Forse anche ai luoghi che si sono abitati.
Scomparire. Non per fuggire dagli altri, o negare il posto che occupano in ogni esistenza, ma per incontrarli davvero, finalmente.
Davide è un architetto: ne seguiamo le tappe dell’affermazione professionale, che inevitabilmente coinvolge la famiglia, fino al momento in cui un banale incidente suscita in lui un ripensamento che lo porta a intravedere in sé stesso un altro, più grande desiderio, che non gli è sconosciuto ma era, di fatto, finito con l’appannarsi, fin quasi a perdersi. Di qui la scelta, che la figlia Lucia, voce narrante che attraversa il romanzo, si prova a descrivere: “Non lo sapevamo ancora che uno può non esserci anche se è lì dove sono gli altri. La moglie, i figli. Nella stessa casa. Era scomparso, nostro padre, anche se c’era: non si poteva dire in altro modo. Era scomparso anche se, come mai era accaduto in passato, ci restava vicino, ogni giorno”.
Diversamente dal primo, il secondo protagonista, Cesare, libraio di vaste letture, ha sentito di dover lasciare la città in cui era sempre vissuto, per scomparire, ma senza andar lontano. Gli è bastato trasferirsi in una città a poche decine di chilometri dalla propria per sentirsi altrove. Sono ormai anni che vi conduce un’esistenza ritirata, austera e operosa, quando la sua strada incrocia quella di Davide, che dall’incontro, presto fattosi consuetudine, ricaverà una conferma decisiva della sua scelta di vita. Fino a condividere l’interesse per i diari alla cui cura Cesare dedica le proprie giornate. Si tratta delle carte di uno zio cui era stato molto legato, ma che era a sua volta scomparso molti anni prima, al tempo della sua prima adolescenza.
Si tratta del terzo protagonista, Luigi, che racconta la nuova vita che si è scelto in un paese della montagna appenninica, dove l’amicizia con un professore lì ritiratosi lo invoglia a cercare di tradurre in scrittura la propria esperienza, via via più ricca di relazioni con gli abitanti del luogo, ma anche con il mondo non umano che le grandi faggete progressivamente gli aprono.
Nel romanzo le tre storie, pur proponendosi in successione, si intrecciano in modo tale che quella che per prima si è svolta, in ordine di tempo, finisce con l’apparire come l’approdo delle altre due: l’avventura esistenziale di Luigi sembra rappresentare la realizzazione delle aspirazioni che Davide e, in modo e con esiti diversi, Cesare avevano coltivato.
L’ininterrotta domanda sul senso della propria vita rappresenta un tema di fondo, che si affianca tuttavia ad altri, come quello dello scrivere, terreno sul quale quella stessa domanda ha modo di esercitarsi, dando luogo a una narrazione che sperimenta registri diversi e risuona di echi letterari, talvolta espliciti, com’è nel caso della rilettura del Wakefield di Hawthorne, riferimento naturale di ogni racconto che metta in scena personaggi enigmaticamente votati alla scomparsa.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
Non è vero che una persona c’è o non c’è. Si può essere assenti in molti modi, a gradi diversi. Uno che è partito ma sai che tornerà non è via come chi se n’è andato lasciandoti nel dubbio che si faccia rivedere, e neanche come chi sai che non farà ritorno. E se poi non lo farà perché non può farlo, perché è morto, allora la sua assenza sarà ancora diversa. Le sappiamo tutti queste cose. Ma quello che era successo in casa nostra noi non avremmo mai immaginato che potesse accadere.
Non è che prima lui ci fosse tanto, a dir la verità.
Ci si alzava e lui era già uscito. Nostra madre, in cucina a prepararci la colazione, aveva già cominciato il suo soliloquio, chiamando me e mio fratello, senza attendersi riposta, a testimoni di quel suo modo di fare incivile: uscire senza un buongiorno, e senza neanche un caffè. «Cosa gliela preparo a fare la macchinetta pronta sul gas, tutte le sere? Vorrei saperlo».
Era da sempre, che io mi ricordassi, che lui se ne andava di casa la mattina presto, quando non c’era ancora nessuno in piedi. E lei se la prendeva a male, tutti i giorni. «Un modo di fare incivile» ripeteva.
Ma c’era mai stato un tempo in cui facevano colazione insieme? in cui lei si alzava per prima e gli faceva trovare la tavola apparecchiata? o magari s’alzava appena dopo e lo trovava che versava il caffè nelle tazzine? o aspettava a letto, la domenica, che lui glielo portasse? un tempo nel quale né io né Alberto eravamo ancora nati e loro si godevano insieme l’inizio della giornata? Non mi pareva possibile, non riuscivo neanche a immaginarlo. Secondo me, erano solo cambiate le parole, non l’aria, della quotidiana recriminazione con cui iniziava la giornata. Ne era passato del tempo da quando diceva: «ma come è possibile? lasciarmi qui con due bambini piccoli, e lui via!». Il tono però era lo stesso, anche se adesso sembrava che fosse l’uscire senza bere il caffè a indignarla. Non contava che noi fossimo grandi e fossi io a caricare la moca, a spremere le arance, a tostare il pane, anche per lei. E per Alberto, che se ne stava seduto ad aspettare di essere servito, al posto dove lei avrebbe voluto vedere nostro padre.
Vedendo un bambino che s’era messo dietro un muretto e s’era coperto gli occhi con la mano mentre passavamo, quasi che il gesto bastasse a renderlo invisibile a noi come il muretto agli altri bambini con cui giocava a nascondino, Cesare m’aveva detto, con l’aria di constatarlo solo in quel momento, che quel gioco lui, da piccolo, lo faceva da solo. Giocava al fantasma, così gli piaceva dire. Spariva, dietro un divano, nel ripostiglio in fondo al corridoio, perfino in un baule, una volta, e se ne stava lì, ad ascoltare gli altri chiamarlo, dapprima imperiosi, poi preoccupati, e supplichevoli infine. Il culmine del gioco arrivava quando smettevano di cercarlo, quando qualcuno finiva col dire a sua madre, e alla sorellina, in ansia più di tutti, che non c’era che da aspettare che si rifacesse vivo.
Poi erano venuti gli anni in cui, se interrogato, dichiarava senza esitazione che da grande sarebbe stato frate, di clausura – e qui non ho potuto non ripensare a quello che in qualche modo aveva lasciato credere a Virginia – o missionario in luoghi lontanissimi dai quali non sarebbe più tornato, o boscaiolo e cacciatore fra montagne disabitate.
Adolescente, aveva preso l’abitudine di uscire di casa quando era ancora buio, senza farsi sentire dai suoi: correva, correva fino alla periferia, e oltre. Correva mentre era ancora buio, finché non cominciava a far chiaro. Nessuno sapeva, nessuno seppe mai di queste sue uscite: erano i momenti in cui immaginava di potersene andare davvero, senza che si avesse più notizia di lui. Poi andava a scuola, la borsa coi libri l’aveva lasciata in un garage abbandonato dove la sapeva al sicuro. A casa diceva che era uscito presto per andare alla prima messa. La madre ne era commossa, anche il padre cominciava a credere che quelle idee di andar frate o fare il missionario non fossero le fantasie di un bambino.
Era poi andata a finire che era diventato libraio. Il libraio di poche parole che rari clienti sapevano apprezzare. Ma quell’aspirazione a una solitudine estrema non l’aveva abbandonato.
Un giorno, avrò avuto quattro anni, siamo andati alla stazione un po’ dopo il mezzogiorno, e quando siamo arrivati c’era un treno merci fermo, ma i vagoni erano diversi dai soliti che passavano. Non erano di quelli scoperti, come carri, e neanche tutti chiusi. C’erano delle fessure fra le assi delle pareti e la prima cosa che ho visto sono stati occhi scuri che guardavano fuori; musi bianchi, anche se sporchi, che cercavano aria; lingue rosa che leccavano il legno del vagone. Era un treno pieno di pecore. Fermo in stazione perché doveva lasciar passare prima un altro treno per Milano.
Intanto che la mamma portava il mangiare nell’armadietto dove lo lasciava sempre – perché lui, mio padre, non era lì, era dove l’avevano mandato, a lavorare magari a qualche scambio fuori dalla stazione – mi sono avvicinato per guardare dentro, e dalla fessura, quella più bassa, alle altre non arrivavo, è spuntato un muso più piccolo. Io l’ho accarezzato e lui mi leccava la mano, e poi ne è arrivato un altro.
“Sono agnelli”: la mamma era tornata, era lì da un po’ e mi guardava, senza dir niente.
“Come quelli del presepio…” ho detto io. “E dove vanno?”
“Mah… Fanno un viaggio. Vanno dove c’è una bella erbetta tenera”.
“E prima dov’erano?”
“Erano in montagna e là l’erba era finita, l’avevano mangiata tutta”.
Li vedo ancora gli occhi di quegli agnelli, e anche quelli delle pecore che stavano dietro di loro. Adesso che c’ero lì io quelle non si avvicinavano più alle fessure. Sembrava che non gli interessasse più venire a guardar fuori, o che non si fidassero. Sapevano che dagli uomini, anche dai piccoli di uomo non c’era nulla di buono da aspettarsi. Ma questa l’ho pensata ieri, intanto che scrivevo.
Be’, non volevo più andar via, e quando il treno si è rimesso in moto gli sarei corso dietro se la mamma non mi avesse preso per mano. Ha poi chiesto al papà, e da quel giorno siamo andati in stazione non più a mezzogiorno, ma verso l’una, quando, non tutti i giorni, ma almeno un paio di volte alla settimana, facevano sosta nella nostra stazione treni carichi di animali.
Non solo pecore, anche mucche e manzi: i musi incollati alle fessure, e gli occhi che sembravano cercar di riconoscere qualcosa che avevano già visto nelle stazioni attraversate.
Il sole si stava facendo caldo. Mi sono ritirato sotto un boschetto di larici. In cielo s’erano formate delle grandi nuvole candide.
Ho appoggiato la schiena a una pianta, e sono rimasto a guardarmi intorno, ad ascoltare il canto delle cicale, un tonfo nell’acqua della pozza, e un suono appena percettibile ma continuo, una sorta di fermento, che si alzava dal prato assolato.
Nulla accadeva per me. Tutto sarebbe accaduto anche se non fossi stato lì.
Che cosa distingue la percezione di una cosa ovvia come questa da una scoperta? perché ho potuto immaginare la mia assenza nel momento stesso in cui ero lì? e perché questa sensazione, precisa, lampante, mi ha dato un sollievo che non mi sembrava di aver mai provato? Una specie di beatitudine tranquilla, che avvertivo avrebbe potuto sempre essere alla mia portata: sentire che avrei potuto non essere nato, e che se ero lì non era perché avessi scelto io di nascere. E in questo, accorgermi di essere nella condizione stessa di tutto ciò che avevo intorno. Tutto. Animali piante pietre nuvole. Esseri che mi apparivano sospesi nel momento, che mi apparivano come sempre erano, anche quando il mio sguardo non cadeva su di essi. Esseri nei quali non c’era un qualche significato da scoprire. In essi non c’era nulla di nascosto, di sottinteso, di allusivo: non mi dicevano niente. Non mi comunicavano nulla, tranne il fatto di stare nello stesso luogo in cui anch’io stavo. Di esser compiutamente lì nel momento in cui erano, senza alcuna promessa di esserci sempre. In questo del tutto indistinguibili, e oscuramente concordi le foglie che di quando in quando frusciavano sopra di me le erbe che oscillavano nel prato che avevo davanti gli insetti che vi ronzavano le pietre che vi affioravano la brezza che tutti lambiva, anche l’uomo che respirava guardava ascoltava…
Mi sono visto nella medesima condizione. Provvisoriamente interamente lì. In nulla di essenziale diverso da tutti gli esseri fra cui ero e dai quali non sentivo spirare né fratellanza né indifferenza. Né una segreta reciproca attenzione né un’estraneità ostile.
Ero rimasto immobile, con un vago timore che cambiar posizione potesse far svanire il sentimento in cui ero immerso come l’illusione di un attimo. Ma ho sentito che dovevo correre il rischio. Mi sono steso sull’erba, a guardare il lento mutare di forma di una nuvola.
Ho avuto la sensazione precisa che quello che stavo vivendo non era del tutto una novità. Era un’esperienza già provata, ma lontana, quasi fosse un’altra persona il bambino che ne era forse stato attraversato; o che avevo provato in seguito ma che non avevo ammesso di provare. Un’esperienza, in ogni caso, che credevo di non aver potuto ricordare. Affondata in una preistoria della mia vita.
Mi sono di nuovo addentrato tra i faggi avendo però, adesso, la strana impressione che fosse la prima volta che camminavo per quella stradetta. Era la luce, forse. La luce di quei momenti in cui il giorno e la notte si incontrano in un tempo che non appartiene né all’uno né all’altra, ma certamente anche quel pensiero che dicevo, l’idea che sia propria delle piante una determinazione mite. Non credo che altrimenti mi sarebbe avvenuto di vederle come mai le avevo viste: individui che silenziosi mi erano intorno quasi fossi uno di loro. Individui che sapevano uno dell’altro senza bisogno di dirselo, diversi per età ma accomunati dall’innata tranquilla volontà di vivere la loro vita nel punto stesso in cui erano nati. Individui, ma insieme membri di un unico essere vivente, vigile e al tempo stesso pervaso dalla calma che può venire solo dalla certezza che nulla di nuovo potrà accadere, distante dal mondo e dalle vicende che incessantemente lo attraversano ma anche ad esse risolutamente, totalmente e perennemente esposto, fin quasi a coincidere con il mondo stesso.
Tra quei faggi, ho avuto ieri sera la sensazione di intuire un nesso profondo, un’identità sfuggente, segreta, tra il restare quel che si è e il mutare senza tregua, tra il costituire un’entità singola e l’essere parte di un insieme senza il quale quella stessa singolarità non avrebbe consistenza. Tra l’essere uno e l’essere molti. Tra il divenire e l’essere, alla fine. Un divenire nel quale di fatto consiste l’essere, un essere che è attraversato dal divenire, l’uno e l’altro indissolubili, distinguibili solo da chi si sente come un ramoscello caduto nel fiume e trascinato dalla sua corrente; solo da chi non sa rappresentarselo che come un fiume, il tempo, nemico dunque della vita, che ne è trascinata avanti, travolta, subissata alla fine…
Che duri poco, come quella del merlo che chiocciava tra le foglie, o di più, come la mia, o più ancora, come quella del faggi tra cui facevo questi pensieri, la vita non è nel tempo, sballottata, portata via dal tempo: è tempo. Questo mi è apparso chiaro di una chiarezza elusiva. Evidente e imprendibile.
Il tempo è il senso della vita. Come si dice che il fiume va dal monte alla valle e poi al mare, in quel senso, certo; ma anche come quando si parla del senso di un discorso. È così, non può che essere così, anche se è difficile convincersene, accettarlo. Impossibile forse. Ma lo sappiamo che è così. Possiamo ribellarci, cercar vie traverse o tirar via, far finta di non saperlo anche se lo sappiamo.
Non era una cosa che non avessi mai pensato. È che avevo voluto liberarmene al più presto, per una sorta di pudore, per la sensazione che queste fossero cose da filosofi.
«È un filosofo, a modo suo» diceva Mattia di Anselmo, e forse intendeva che filosofo è chi non rifugge da pensieri che più o meno consapevolmente facciamo tutti ma in pochi sappiamo riconoscere nella loro essenzialità.
Ho tirato un lungo respiro, mi son guardato attorno sentendomi contento di me stesso. Senza tuttavia aver l’impressione che qualcosa stesse finalmente per cambiare, che quanto mi circondava me lo promettesse, o mi desse una qualche conferma. Era semplicemente lì, come me che ne ero parte. Alla pari. Tanto da poter immaginare la pacata reciprocità di uno sguardo che avrei potuto cogliere anche prima ma mi risultava evidente, naturale, solo adesso: lo sguardo di quei grandi faggi su di me e del mio sui loro tronchi che andavano scurendosi nel crepuscolo e sul fogliame che, nel suo lieve ondeggiare, lasciava intravedere lembi di un cielo che tratteneva l’ultima luce. In un silenzio che si rivelava condizione di ogni suono, di ogni voce; l’eco lontana delle parole che riempiono i giorni, il cuore nascosto dei pensieri nei quali incessantemente le vite cercano la loro verità.
Mi sono visto come potessi guardarmi dall’alto di quei rami: lì, fermo nel chiaro della strada bianca con gli occhi rivolti al buio che invadeva ormai il bosco, restituendolo al sovrano riserbo che la luce del giorno offusca.
Ordini
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