Carlo Simoni, Diserzioni, Castelvecchi 2024 (pp. 361, euro 27)
Scomparire. Deliberatamente, con determinazione.
Non per annullarsi, ma per realizzarsi, finalmente. Non per segnare una cesura nella propria vita, ma anzi per recuperarne l’unità riprendendone il filo che le vicende vissute, gli obiettivi rincorsi, le cadute nel conformismo avevano logorato, senza riuscire però a troncarlo: non ripetere, ma ripartire da ciò che di più vero è rimasto distinguibile nella propria vita.
Ma non sembra possibile, questo ritorno che è cambiamento, se non rinunciando alle relazioni che si sono tessute. Forse anche ai luoghi che si sono abitati.
Scomparire. Non per fuggire dagli altri, o negare il posto che occupano in ogni esistenza, ma per incontrarli davvero, finalmente.
Davide è un architetto: ne seguiamo le tappe dell’affermazione professionale, che inevitabilmente coinvolge la famiglia, fino al momento in cui un banale incidente suscita in lui un ripensamento che lo porta a intravedere in sé stesso un altro, più grande desiderio, che non gli è sconosciuto ma era, di fatto, finito con l’appannarsi, fin quasi a perdersi. Di qui la scelta, che la figlia Lucia, voce narrante che attraversa il romanzo, si prova a descrivere: “Non lo sapevamo ancora che uno può non esserci anche se è lì dove sono gli altri. La moglie, i figli. Nella stessa casa. Era scomparso, nostro padre, anche se c’era: non si poteva dire in altro modo. Era scomparso anche se, come mai era accaduto in passato, ci restava vicino, ogni giorno”.
Diversamente dal primo, il secondo protagonista, Cesare, libraio di vaste letture, ha sentito di dover lasciare la città in cui era sempre vissuto, per scomparire, ma senza andar lontano. Gli è bastato trasferirsi in una città a poche decine di chilometri dalla propria per sentirsi altrove. Sono ormai anni che vi conduce un’esistenza ritirata, austera e operosa, quando la sua strada incrocia quella di Davide, che dall’incontro, presto fattosi consuetudine, ricaverà una conferma decisiva della sua scelta di vita. Fino a condividere l’interesse per i diari alla cui cura Cesare dedica le proprie giornate. Si tratta delle carte di uno zio cui era stato molto legato, ma che era a sua volta scomparso molti anni prima, al tempo della sua prima adolescenza.
Si tratta del terzo protagonista, Luigi, che racconta la nuova vita che si è scelto in un paese della montagna appenninica, dove l’amicizia con un professore lì ritiratosi lo invoglia a cercare di tradurre in scrittura la propria esperienza, via via più ricca di relazioni con gli abitanti del luogo, ma anche con il mondo non umano che le grandi faggete progressivamente gli aprono.
Nel romanzo le tre storie, pur proponendosi in successione, si intrecciano in modo tale che quella che per prima si è svolta, in ordine di tempo, finisce con l’apparire come l’approdo delle altre due: l’avventura esistenziale di Luigi sembra rappresentare la realizzazione delle aspirazioni che Davide e, in modo e con esiti diversi, Cesare avevano coltivato.
L’ininterrotta domanda sul senso della propria vita rappresenta un tema di fondo, che si affianca tuttavia ad altri, come quello dello scrivere, terreno sul quale quella stessa domanda ha modo di esercitarsi, dando luogo a una narrazione che sperimenta registri diversi e risuona di echi letterari, talvolta espliciti, com’è nel caso della rilettura del Wakefield di Hawthorne, riferimento naturale di ogni racconto che metta in scena personaggi enigmaticamente votati alla scomparsa.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
Non è vero che una persona c’è o non c’è. Si può essere assenti in molti modi, a gradi diversi. Uno che è partito ma sai che tornerà non è via come chi se n’è andato lasciandoti nel dubbio che si faccia rivedere, e neanche come chi sai che non farà ritorno. E se poi non lo farà perché non può farlo, perché è morto, allora la sua assenza sarà ancora diversa. Le sappiamo tutti queste cose. Ma quello che era successo in casa nostra noi non avremmo mai immaginato che potesse accadere.
Non è che prima lui ci fosse tanto, a dir la verità.
Ci si alzava e lui era già uscito. Nostra madre, in cucina a prepararci la colazione, aveva già cominciato il suo soliloquio, chiamando me e mio fratello, senza attendersi riposta, a testimoni di quel suo modo di fare incivile: uscire senza un buongiorno, e senza neanche un caffè. «Cosa gliela preparo a fare la macchinetta pronta sul gas, tutte le sere? Vorrei saperlo».
Era da sempre, che io mi ricordassi, che lui se ne andava di casa la mattina presto, quando non c’era ancora nessuno in piedi. E lei se la prendeva a male, tutti i giorni. «Un modo di fare incivile» ripeteva.
Ma c’era mai stato un tempo in cui facevano colazione insieme? in cui lei si alzava per prima e gli faceva trovare la tavola apparecchiata? o magari s’alzava appena dopo e lo trovava che versava il caffè nelle tazzine? o aspettava a letto, la domenica, che lui glielo portasse? un tempo nel quale né io né Alberto eravamo ancora nati e loro si godevano insieme l’inizio della giornata? Non mi pareva possibile, non riuscivo neanche a immaginarlo. Secondo me, erano solo cambiate le parole, non l’aria, della quotidiana recriminazione con cui iniziava la giornata. Ne era passato del tempo da quando diceva: «ma come è possibile? lasciarmi qui con due bambini piccoli, e lui via!». Il tono però era lo stesso, anche se adesso sembrava che fosse l’uscire senza bere il caffè a indignarla. Non contava che noi fossimo grandi e fossi io a caricare la moca, a spremere le arance, a tostare il pane, anche per lei. E per Alberto, che se ne stava seduto ad aspettare di essere servito, al posto dove lei avrebbe voluto vedere nostro padre.
Vedendo un bambino che s’era messo dietro un muretto e s’era coperto gli occhi con la mano mentre passavamo, quasi che il gesto bastasse a renderlo invisibile a noi come il muretto agli altri bambini con cui giocava a nascondino, Cesare m’aveva detto, con l’aria di constatarlo solo in quel momento, che quel gioco lui, da piccolo, lo faceva da solo. Giocava al fantasma, così gli piaceva dire. Spariva, dietro un divano, nel ripostiglio in fondo al corridoio, perfino in un baule, una volta, e se ne stava lì, ad ascoltare gli altri chiamarlo, dapprima imperiosi, poi preoccupati, e supplichevoli infine. Il culmine del gioco arrivava quando smettevano di cercarlo, quando qualcuno finiva col dire a sua madre, e alla sorellina, in ansia più di tutti, che non c’era che da aspettare che si rifacesse vivo.
Poi erano venuti gli anni in cui, se interrogato, dichiarava senza esitazione che da grande sarebbe stato frate, di clausura – e qui non ho potuto non ripensare a quello che in qualche modo aveva lasciato credere a Virginia – o missionario in luoghi lontanissimi dai quali non sarebbe più tornato, o boscaiolo e cacciatore fra montagne disabitate.
Adolescente, aveva preso l’abitudine di uscire di casa quando era ancora buio, senza farsi sentire dai suoi: correva, correva fino alla periferia, e oltre. Correva mentre era ancora buio, finché non cominciava a far chiaro. Nessuno sapeva, nessuno seppe mai di queste sue uscite: erano i momenti in cui immaginava di potersene andare davvero, senza che si avesse più notizia di lui. Poi andava a scuola, la borsa coi libri l’aveva lasciata in un garage abbandonato dove la sapeva al sicuro. A casa diceva che era uscito presto per andare alla prima messa. La madre ne era commossa, anche il padre cominciava a credere che quelle idee di andar frate o fare il missionario non fossero le fantasie di un bambino.
Era poi andata a finire che era diventato libraio. Il libraio di poche parole che rari clienti sapevano apprezzare. Ma quell’aspirazione a una solitudine estrema non l’aveva abbandonato.
Un giorno, avrò avuto quattro anni, siamo andati alla stazione un po’ dopo il mezzogiorno, e quando siamo arrivati c’era un treno merci fermo, ma i vagoni erano diversi dai soliti che passavano. Non erano di quelli scoperti, come carri, e neanche tutti chiusi. C’erano delle fessure fra le assi delle pareti e la prima cosa che ho visto sono stati occhi scuri che guardavano fuori; musi bianchi, anche se sporchi, che cercavano aria; lingue rosa che leccavano il legno del vagone. Era un treno pieno di pecore. Fermo in stazione perché doveva lasciar passare prima un altro treno per Milano.
Intanto che la mamma portava il mangiare nell’armadietto dove lo lasciava sempre – perché lui, mio padre, non era lì, era dove l’avevano mandato, a lavorare magari a qualche scambio fuori dalla stazione – mi sono avvicinato per guardare dentro, e dalla fessura, quella più bassa, alle altre non arrivavo, è spuntato un muso più piccolo. Io l’ho accarezzato e lui mi leccava la mano, e poi ne è arrivato un altro.
“Sono agnelli”: la mamma era tornata, era lì da un po’ e mi guardava, senza dir niente.
“Come quelli del presepio…” ho detto io. “E dove vanno?”
“Mah… Fanno un viaggio. Vanno dove c’è una bella erbetta tenera”.
“E prima dov’erano?”
“Erano in montagna e là l’erba era finita, l’avevano mangiata tutta”.
Li vedo ancora gli occhi di quegli agnelli, e anche quelli delle pecore che stavano dietro di loro. Adesso che c’ero lì io quelle non si avvicinavano più alle fessure. Sembrava che non gli interessasse più venire a guardar fuori, o che non si fidassero. Sapevano che dagli uomini, anche dai piccoli di uomo non c’era nulla di buono da aspettarsi. Ma questa l’ho pensata ieri, intanto che scrivevo.
Be’, non volevo più andar via, e quando il treno si è rimesso in moto gli sarei corso dietro se la mamma non mi avesse preso per mano. Ha poi chiesto al papà, e da quel giorno siamo andati in stazione non più a mezzogiorno, ma verso l’una, quando, non tutti i giorni, ma almeno un paio di volte alla settimana, facevano sosta nella nostra stazione treni carichi di animali.
Non solo pecore, anche mucche e manzi: i musi incollati alle fessure, e gli occhi che sembravano cercar di riconoscere qualcosa che avevano già visto nelle stazioni attraversate.
Il sole si stava facendo caldo. Mi sono ritirato sotto un boschetto di larici. In cielo s’erano formate delle grandi nuvole candide.
Ho appoggiato la schiena a una pianta, e sono rimasto a guardarmi intorno, ad ascoltare il canto delle cicale, un tonfo nell’acqua della pozza, e un suono appena percettibile ma continuo, una sorta di fermento, che si alzava dal prato assolato.
Nulla accadeva per me. Tutto sarebbe accaduto anche se non fossi stato lì.
Che cosa distingue la percezione di una cosa ovvia come questa da una scoperta? perché ho potuto immaginare la mia assenza nel momento stesso in cui ero lì? e perché questa sensazione, precisa, lampante, mi ha dato un sollievo che non mi sembrava di aver mai provato? Una specie di beatitudine tranquilla, che avvertivo avrebbe potuto sempre essere alla mia portata: sentire che avrei potuto non essere nato, e che se ero lì non era perché avessi scelto io di nascere. E in questo, accorgermi di essere nella condizione stessa di tutto ciò che avevo intorno. Tutto. Animali piante pietre nuvole. Esseri che mi apparivano sospesi nel momento, che mi apparivano come sempre erano, anche quando il mio sguardo non cadeva su di essi. Esseri nei quali non c’era un qualche significato da scoprire. In essi non c’era nulla di nascosto, di sottinteso, di allusivo: non mi dicevano niente. Non mi comunicavano nulla, tranne il fatto di stare nello stesso luogo in cui anch’io stavo. Di esser compiutamente lì nel momento in cui erano, senza alcuna promessa di esserci sempre. In questo del tutto indistinguibili, e oscuramente concordi le foglie che di quando in quando frusciavano sopra di me le erbe che oscillavano nel prato che avevo davanti gli insetti che vi ronzavano le pietre che vi affioravano la brezza che tutti lambiva, anche l’uomo che respirava guardava ascoltava…
Mi sono visto nella medesima condizione. Provvisoriamente interamente lì. In nulla di essenziale diverso da tutti gli esseri fra cui ero e dai quali non sentivo spirare né fratellanza né indifferenza. Né una segreta reciproca attenzione né un’estraneità ostile.
Ero rimasto immobile, con un vago timore che cambiar posizione potesse far svanire il sentimento in cui ero immerso come l’illusione di un attimo. Ma ho sentito che dovevo correre il rischio. Mi sono steso sull’erba, a guardare il lento mutare di forma di una nuvola.
Ho avuto la sensazione precisa che quello che stavo vivendo non era del tutto una novità. Era un’esperienza già provata, ma lontana, quasi fosse un’altra persona il bambino che ne era forse stato attraversato; o che avevo provato in seguito ma che non avevo ammesso di provare. Un’esperienza, in ogni caso, che credevo di non aver potuto ricordare. Affondata in una preistoria della mia vita.
Mi sono di nuovo addentrato tra i faggi avendo però, adesso, la strana impressione che fosse la prima volta che camminavo per quella stradetta. Era la luce, forse. La luce di quei momenti in cui il giorno e la notte si incontrano in un tempo che non appartiene né all’uno né all’altra, ma certamente anche quel pensiero che dicevo, l’idea che sia propria delle piante una determinazione mite. Non credo che altrimenti mi sarebbe avvenuto di vederle come mai le avevo viste: individui che silenziosi mi erano intorno quasi fossi uno di loro. Individui che sapevano uno dell’altro senza bisogno di dirselo, diversi per età ma accomunati dall’innata tranquilla volontà di vivere la loro vita nel punto stesso in cui erano nati. Individui, ma insieme membri di un unico essere vivente, vigile e al tempo stesso pervaso dalla calma che può venire solo dalla certezza che nulla di nuovo potrà accadere, distante dal mondo e dalle vicende che incessantemente lo attraversano ma anche ad esse risolutamente, totalmente e perennemente esposto, fin quasi a coincidere con il mondo stesso.
Tra quei faggi, ho avuto ieri sera la sensazione di intuire un nesso profondo, un’identità sfuggente, segreta, tra il restare quel che si è e il mutare senza tregua, tra il costituire un’entità singola e l’essere parte di un insieme senza il quale quella stessa singolarità non avrebbe consistenza. Tra l’essere uno e l’essere molti. Tra il divenire e l’essere, alla fine. Un divenire nel quale di fatto consiste l’essere, un essere che è attraversato dal divenire, l’uno e l’altro indissolubili, distinguibili solo da chi si sente come un ramoscello caduto nel fiume e trascinato dalla sua corrente; solo da chi non sa rappresentarselo che come un fiume, il tempo, nemico dunque della vita, che ne è trascinata avanti, travolta, subissata alla fine…
Che duri poco, come quella del merlo che chiocciava tra le foglie, o di più, come la mia, o più ancora, come quella del faggi tra cui facevo questi pensieri, la vita non è nel tempo, sballottata, portata via dal tempo: è tempo. Questo mi è apparso chiaro di una chiarezza elusiva. Evidente e imprendibile.
Il tempo è il senso della vita. Come si dice che il fiume va dal monte alla valle e poi al mare, in quel senso, certo; ma anche come quando si parla del senso di un discorso. È così, non può che essere così, anche se è difficile convincersene, accettarlo. Impossibile forse. Ma lo sappiamo che è così. Possiamo ribellarci, cercar vie traverse o tirar via, far finta di non saperlo anche se lo sappiamo.
Non era una cosa che non avessi mai pensato. È che avevo voluto liberarmene al più presto, per una sorta di pudore, per la sensazione che queste fossero cose da filosofi.
«È un filosofo, a modo suo» diceva Mattia di Anselmo, e forse intendeva che filosofo è chi non rifugge da pensieri che più o meno consapevolmente facciamo tutti ma in pochi sappiamo riconoscere nella loro essenzialità.
Ho tirato un lungo respiro, mi son guardato attorno sentendomi contento di me stesso. Senza tuttavia aver l’impressione che qualcosa stesse finalmente per cambiare, che quanto mi circondava me lo promettesse, o mi desse una qualche conferma. Era semplicemente lì, come me che ne ero parte. Alla pari. Tanto da poter immaginare la pacata reciprocità di uno sguardo che avrei potuto cogliere anche prima ma mi risultava evidente, naturale, solo adesso: lo sguardo di quei grandi faggi su di me e del mio sui loro tronchi che andavano scurendosi nel crepuscolo e sul fogliame che, nel suo lieve ondeggiare, lasciava intravedere lembi di un cielo che tratteneva l’ultima luce. In un silenzio che si rivelava condizione di ogni suono, di ogni voce; l’eco lontana delle parole che riempiono i giorni, il cuore nascosto dei pensieri nei quali incessantemente le vite cercano la loro verità.
Mi sono visto come potessi guardarmi dall’alto di quei rami: lì, fermo nel chiaro della strada bianca con gli occhi rivolti al buio che invadeva ormai il bosco, restituendolo al sovrano riserbo che la luce del giorno offusca.
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Recensioni
Giornale di Brescia, 22.11.2024 – Nicola Rocchi
«Diserzioni», nuovo romanzo per lo scrittore bresciano Carlo Simoni
L’intreccio di tre esistenze e il tema della scrittura nello stile che mescola narrazione, diario, poesia: è uscito «Diserzioni»
Ci sono molti modi e molte ragioni per scomparire. I tre protagonisti di «Diserzioni», il nuovo romanzo del bresciano Carlo Simoni (Castelvecchi, 364 pp., 27 euro), scelgono di farlo «per non mancare la propria vita». L’autore ne parlerà oggi, venerdì, alle 18 nella Nuova Libreria Rinascita (via della Posta 7, Brescia), con letture di Daniele Squassina.
L’architetto Davide si isola progressivamente da colleghi e familiari; il libraio Cesare persegue il «desiderio di non essere nessuno»; tempo prima, suo zio Luigi è andato a vivere da solo in un ignoto paese di montagna. Le loro esistenze si incrociano in una narrazione ricca di echi letterari e giocata abilmente su molti registri, dal narrativo al diaristico, dall’epistolare al poetico.
Simoni, che “diserzioni” racconta nel romanzo?
Le si potrebbe definire “diserzioni sociali”, nel senso che i tre protagonisti, pur non essendo militanti delusi dalla politica o esponenti di un pensiero critico esplicito, senza far discorsi teorici né voler convincere nessuno fanno una scelta simile: quella di scomparire. Non per annullarsi, ma per realizzarsi, finché sono in tempo. Non per segnare una cesura nella propria vita, tale da negare il proprio passato, ma anzi per riprendere il filo che le vicende vissute, gli obiettivi rincorsi, le cadute nel conformismo avevano logorato, senza riuscire però a troncarlo.
Non si tratta, quindi, di vere e proprie fughe?
No. Scompaiono non per fuggire dagli altri, ma per incontrarli davvero, finalmente. Hanno constatato che l’identità che si forma nello scambio sociale non corrisponde a quella intuita al momento della scelta originaria che ciascuno abbozza nell’infanzia, precisa nell’adolescenza e consolida nella prima giovinezza riconoscendo il proprio demone, il proprio desiderio vero, quello che ci rende non eccezionali, ma unici.
Davide si chiede: «si può essere postumi rispetto a se stessi?»…
Nel suo caso, comportarsi da estraneo fra i familiari, ridurre fino a escludere la propria presenza nel suo studio professionale, gli dà il senso non di lasciarsi alle spalle la vita precedente, ma di poter finalmente sgravarsi del peso che si era caricato sin da giovane: la preoccupazione di essere qualcuno, di farsi largo nel mondo. Imbocca la strada che si augura lo porti – per usare le sue parole – a «ripulire il suo desiderio, quello vero, dalle incrostazioni che, con l’aria di realizzarlo, l’avevano invece sepolto», aprendo così la via a quel che ancora potrebbe essere.
Luigi scrive racconti su animali «spaesati». Come è nata questa idea?
Nel personaggio, dall’esperienza fatta vedendo gli animali di un circo trasportati su carri merci; in me, da un episodio narrato in un altro mio romanzo, «I tempi del mondo» – e qui ripreso – in cui una giraffa attraversa il Mediterraneo per arrivare a Parigi, dono, come per secoli si è usato, del pascià d’Egitto a re Carlo X. Lo “spaesamento” di questi animali mi è subito sembrato una metafora calzante in rapporto a quello di molti umani, i migranti costretti a lasciare il loro Paese, innanzitutto, ma anche quelli che storie travagliate e condizioni di vita rendono stranieri in patria.
La scoperta o il bisogno della scrittura legano tra loro le vite narrate. Perché si scrive?
Scrivere è per i protagonisti del romanzo dotarsi, o meglio: darsi l’autorizzazione ad adottare uno sguardo nuovo su di sé e il mondo, gli altri. Il nesso che in loro si stabilisce fra la scelta di scomparire e la pratica della scrittura estremizza un dato di fatto: non si scrive senza prendere una “giusta distanza”, senza sottrarsi in una certa misura alle relazioni sociali, e questo proprio al fine di istituirne di nuove, meno convenzionali.
Forse i tempi in cui viviamo fanno venire a molti la voglia di sparire…
Indubbiamente, ma occorre aver presente che questo romanzo l’ho iniziato una decina d’anni fa, è rimasto a decantare, l’ho ripreso l’anno scorso e sì, in effetti ho avuto l’impressione che avesse a che fare con i tempi che da qualche anno ci troviamo a vivere.
Corriere della Sera – Brescia, 22.11.2024 – Massimo Tedeschi
Le Diserzioni e il Tempo
Di sparizioni è piena la letteratura. Sparizioni sono quelle vagheggiate da Elias Canetti, da Giorgio Caproni e da Cees Noteboom, quelle praticate da Montaigne e da Thoreau. Sparisce dalla sua routine mortificante il Mattia Pascal di Pirandello, salvo poi tornare sui propri passi e ritrovarsi a portare i fiori sulla propria tomba. Sparisce il Wakefield di Daniel Hawtorne e va a vivere nascostamente a pochi isolati da casa sua, salvo tornare nei ranghi dopo vent’anni.
Spariscono anche i tre protagonisti dell’ultimo romanzo del bresciano Carlo Simoni, ma poiché questo triplice dileguamento avviene in tempi a noi contemporanei — che sono quelli dell’obbligo di presenza, del mantra della visibilità, della perenne esposizione in società e nei social — le loro sono vere e proprie «Diserzioni», e tale è il titolo del grande, fluviale, stratiforme e polisemico romanzo (Castelvecchi editore, pp. 362, euro 27, presentazione venerdì 22 novembre alle 18 alla Libreria Nuova Rinascita in via della Posta 7 a Brescia) che segna il nuovo approdo della scrittura romanzesca di Simoni.
Già studioso della cultura materiale e pioniere dell’archeologia industriale, storico, saggista e direttore editoriale, Simoni vive da anni una felice stagione di scrittura creativa vuoi con la testata web «Secondo Orizzonte», vuoi con una produzione romanzesca in cui protagonisti più recenti sono stati scrittori e intellettuali del passato come Benjamin e Leopardi, ma anche un anonimo flaneur che si aggira in una città assai simile a Brescia. Ora il passaggio a un romanzo d’ampio respiro in cui il tema è quello della «diserzione»: dalle convenzioni, dalla routine, dalla famiglia. Diserzione come conquista, come emancipazione, come luogo di verità in cui affrontare il senso del tempo e della vita, delle relazioni con gli umani e con la natura.
La voce narrante è quella di una giovane donna che non smette di arrovellarsi sulla sparizione del padre, l’architetto Davide Soresi. La donna scopre uno scritto paterno in cui si spiega come l’architetto avesse maturato l’idea di sparire, e l’avesse corroborata seguendo ed infine entrando in confidenza con uno che era sparito davvero, Cesare Aldobrandi, libraio di vaste letture. Questi s’era assunto come estremo compito la trascrizione del diario di uno zio, Luigi, a sua volta sparito prima di lui.
Questo diario forma parte cospicua del romanzo e ne moltiplica il gioco di specchi, le rifrazioni e le digressioni, come le storie di animali esotici spaesati, strappati dal loro habitat e portati in Europa per motivi bellici, di prestigio o di diplomazia, storie che Luigi racconta a due amici incontrati nel paesino dove ha trovato rifugio.
I tre protagonisti vivono in parallelo, ognuno a modo suo e in epoche diverse, un percorso di riduzione all’essenziale: nei rapporti con il prossimo, con l’ambiente circostante, con la propria vita e la propria morte, fino alla scoperta sapienziale che «il tempo è il senso della vita» e che «la vita è una ed è di tutti: movimento, scambio, circolazione continua». Fino alla rivelazione dell’ultima pagina, dell’ultima riga. Che fa venire la voglia di ricominciare a leggere il libro da capo.
Brescia Oggi, 22.11.2024 – Magda Biglia
Un libro, tanti libri in uno, prosa e anche poesia. Tre storie e tre protagonisti, tante storie da corollario e carrellata di personaggi, la narratrice al femminile. Dopo ‘Partenze’ del 2023, arriva ‘Diserzioni’, due titoli, la traccia di un percorso dell’autore, Carlo Simoni. Simoni che in pandemia ha teorizzato che non si poteva prendere la penna (pardon il computer) in mano, Simoni che poi ha pubblicato, per Secondorizzonte, ‘Un albero solo’. Simoni al quale interessano alla fine più di ogni cosa, disseminati di nuovo nell’ultimo testo edito da Castelvecchi, gli interrogativi esistenziali di tutti e quelli di uno scrittore, il senso del vivere e del morire, il motivo del narrare e ancora del parlare di se stessi, di parlare della scrittura dentro la scrittura. Interrogativi, non di maniera ma pronti a considerare l’immediato contrario, che attraversano la sua ricca produzione, rovelli tuttora privi di risposte per lui convincenti, una ricerca non conclusa.‘Diserzioni’è infatti la il romanzo di un romanzo senza esito letterario. Difficile sintetizzare il contenuto, i contenuti, descrivere le tre esistenze accomunate dal desiderio di fuga, dalla necessità estrema di ‘disertare’ dall’esistenza stessa. Più facile rincorrere le domande, i messaggi pur numerosi che scaturiscono da ogni pagina densa, le riflessioni dolci amare sul matrimonio, sul termine della permanenza terrena, sull’autenticità dei ritmi del passato, sulla possibilità del riconoscersi nel mondo intorno. Sullo scorrere possibile di “quelle creature che hanno scavato la loro tana e nel semplice succedersi dei giorni trovano il senso della loro vita”. “Vale la pena di scrivere quando la scrittura è orientata da un desiderio pago di sé, indipendente dal risultato che ne potrebbe eventualmente sortire” questa una delle asserzioni. Come “Scrivere è uno dei modi indispensabili per pensare e per capire”. “Non è solo mettere sul foglio le parole che si sarebbe potuto dire a voce”. E noi lettori, quale è il nostro compito? La lettura, se è lettura vera, ci dice l’autore, induce a “cercare nel libro qualcosa che può servire alla propria vita o offrirle uno specchio in cui vederla come fosse la vita di un altro”. Ma uno che scrive sta nel suo universo, fuori, estraneo a ciò che lo circonda? E’ uno dei modi, oltre alla fuga, per trovare l’incomunicabilità, non certo dramma, ma elisir per la sopravvivenza? Oppure la volontà di essere dimenticati viene contraddetta dall’obiettivo di perpetuarsi insito nel bisogno del nero su bianco? Chi aspira a scomparire può nel contempo tenere a scriverne, può, direttamente o indirettamente attraverso i personaggi, parlare di sè? ?Conta la paura o l’anelito dell’ essere qualcuno? Lo scrive l’autore stesso nel finale: le tre storie, di Davide, Cesare, Luigi, anche se diversi e differentemente motivati, confluiscono in un racconto, annegano nel filone già comparso con Rousseau, Carpaccio e Montaigne di ‘partenze’ viste come cesura, come ricerca di una solitudine vera, non finta come le solitudini in mezzo ad altre solitudini. Si può essere assenti anche in presenza.