Auður Ava Ólafsdóttir, Eden, Einaudi 2024 (pp. 192, euro 18)
Se la si guarda abbastanza da lontano, “si resta sbalorditi da quanto la terra sia piccola, dato che non solo gira attorno al sole a una velocità di centottomila chilometri all’ora, ma anche su se stessa, a milleseicentonovanta mila chilometri all’ora”, e allora “si capisce quanto poco ci voglia per farla uscire dai binari”: pensieri di Alba, passeggera di un aereo che porterà lei, studiosa di “lingue minoritarie in pericolo di estinzione”, dall’isola in cui abita, a nord del Circolo polare artico, a uno dei convegni di linguisti cui ordinariamente partecipa.
Questo si svolge poco dopo la pandemia, in un remoto paese di montagna che reca i segni degli incendi boschivi dell’estate precedente.
Solo un paio di pagine e il tema del romanzo è delineato: la crisi ambientale e le sue conseguenze, che rendono fragile il pianeta, e parallelamente la progressiva perdita di quella biodiversità culturale rappresentata dalla sopravvivenza di lingue fra loro diverse: tra le sei e le settemila, si stima, tenendo conto però che “muore una lingua ogni settimana” (meno delle specie, che pare scompaiano al ritmo di cinquanta al giorno…). La risoluzione con cui si chiude il convegno denuncia che “il novanta per cento delle lingue sarà estinto alla fine del prossimo secolo”, dopodiché gli studiosi convenuti tornano a casa: sapere e fare come non si sapesse, ma d’altronde che fare? I linguisti non paiono salvarsi dall’impotenza cui l’accelerazione del cambiamento costringe anche chi ne è cosciente. Senonché c’è chi, come la protagonista, non si sente assolta dalla obiettiva difficoltà di prendere una propria, personale iniziativa: “mi domando quanto alberi dovrei piantare per compensare le emissioni di carbonio degli aerei che ho preso quest’anno”. Il conto è presto fatto: cinquemilaseicento. Non le resta che acquistare un terreno, non importa se deserto e gelido, con un casolare in rovina, nei pressi di un paesino che offre ben poco. Non importa, perché quel che Alba vuol farci è piantare degli alberi. Betulle, le più resistenti in un luogo del genere (ma un domani, chissà: anche querce e alberi da frutto, per via del riscaldamento climatico…).
E così inizia la piantumazione, raccontata in un continuo rimando fra cose e parole, circostanze ed etimologie, casi della vita e declinazioni, che per una linguista sembrano disporsi su un medesimo piano di effettività.
La sorella meno, ma il padre la comprende appieno: piantare un bosco è riflettere sul proprio futuro, anche se il futuro si presenta minaccioso, fra pandemia e ripresa della corsa agli armamenti. Ma come potrebbe una linguista immaginare un futuro migliore se non pensando a un mondo nel quale si parla una sola lingua, l’islandese magari, l’unica “ad adottare parole con la stessa radice per heimur, ‘il mondo intero’, heimili, ‘la casa’, e að eiga heima, ‘l’avere casa’ da qualche parte in questo mondo”. In attesa che l’utopia si realizzi, occorre far i conti con il mondo che c’è, quello in cui, anche nella remota Islanda, sono arrivati profughi in cerca di una vita migliore, come gli idraulici che Alba ingaggia per sistemare l’impianto della sua casa. Sia con loro che con gli abitanti del villaggio le relazioni crescono, allo stesso modo del migliaio di piccole betulle da poco piantate e le patate e le altre verdure messe a dimora, in una quotidianità che risulta ben accetta alla protagonista e sembra priva di imprevisti sostanziali. Non fosse per quelli riguardanti il clima: nubifragi e nevicate mai viste che si alternano a periodi di siccità altrettanto inconsueti, per non dire della strage di uccelli migratori stroncati dall’influenza aviaria. Ma, come sempre in questo romanzo, cambiamenti planetari e vicende individuali corrono paralleli, come su uno stesso piano: il clima muta, la vita di Alba pure, con il suo autolicenziamento dall’università, le lezioni di lingua ai profughi, il parere concesso alla moglie del vicino che da anni teneva romanzi e poesia nel cassetto, l’inquietudine suscitata dal ventilato progetto di una centrale idroelettrica che alimenti uno stabilimento per la produzione di ghiaccio al fine di sfruttare le acque del fiume, che fino allora non erano mai sembrate andare inutilmente verso il mare.
Non fa commenti sui propri giorni e sul luogo che ha scelto, Alba. Il suo è lo sguardo di chi sa che “mentre siamo vivi, siamo sempre situati al centro della nostra vita”. Le basta annotare, incidentalmente, che quello in cui è venuta a vivere “è il mondo prima della creazione del linguaggio”. Un Eden, appunto. Per il momento…
L’autrice islandese – che avevamo incontrato in un precedente romanzo, Hotel silence (Einaudi 2018, in queste note nell’aprile 2018) – dà prova in questo della possibilità di scrivere con semplicità e leggerezza del problema più complicato e drammatico col quale siamo chiamati a confrontarci.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.