Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale, Einaudi 2023 (pp. 110, euro 13)
Si dice patrimonio culturale e si pensa allo Stato e alla situazione attuale; storia dell’arte, e vengono in mente quei pochi che coltivano “la passione – o peggio l’hobby – della ‘bellezza’”. Questo libro serve a indirizzarci altrimenti, a farci render conto che il patrimonio culturale serba “un suo latente, ma fortissimo, conflitto col tempo presente, con il mondo com’è oggi”, “la capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore, ciò che lega davvero alla vita. ciò che le dà senso”.
Perché “il patrimonio culturale è uno spazio che è anche un tempo: un altro tempo, incuneato in quello che chiamiamo presente, ma a esso sottratto. Come diceva Italo Calvino, è “l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo”, del nostro presente, uno dei tanti che si sono succeduti. È dunque un messaggio “eversivo” quello che ne riceviamo, “perché svelle dalle fondamenta il potere annichilente di un presente che, mai come oggi, ripudia la storia, e dunque non riesce a partorire un futuro diverso”.
Efficacia espressiva, verve critica e passione civile convergono, come sempre, nella prosa di Montanari, tanto che riassumerlo senza citarlo farebbe passare in secondo piano la qualità della sua scrittura, appannerebbe il potere di coinvolgimento del suo argomentare. Suo e dei molti che richiama, degli altri che hanno saputo vedere il patrimonio culturale, percepirne il valore al di fuori di ogni proposito di valorizzazione. Carlo Levi ad esempio: “Lo sguardo pesa sulle cose”, scriveva. “vi si rispecchia, si ritrova, stabilisce la doppia, eterna realtà della vita. (…) Se gli occhi guardano con amore, se amore guarda, essi vedono (…) non solo il luogo, ma il tempo. Un luogo che è il tempo, il tempo che è un luogo”. Per cui il patrimonio culturale funziona come “cerniera fra altri tempi e il nostro presente, sempre che la sua considerazione non derivi solo da una sensibilità nativa o dall’erudizione, ma si sia formata attraverso un’“educazione sentimentale” tanto più feconda in un Paese come l’Italia, “luogo della contemporaneità dei tempi”, dove “sui selciati delle strade, sugli asfalti delle automobili, risuona l’eco di passi innumerevoli. Una quantità di vite, di storie, di significati ancora udibili e conoscibili nello stesso spazio in cui viviamo noi”. In un modo del tutto analogo a quello per cui, nella lingua che usiamo ancora oggi, echeggiano le parole di Dante e Petrarca oltre che di generazioni e generazioni di gente comune: “siamo continuamente attraversati da un passato che è presente, e parlante”.
Altro tratto distintivo di Montanari, la densità e la concatenazione degli argomenti e delle riflessioni, che conviene passare in rassegna. A partire dalla constatazione che è “il nostro corpo, tutto intero, a essere coinvolto dal patrimonio, perché lo “abitiamo, lo percorriamo, lo tocchiamo, lo respiriamo: ci viviamo dentro”. Quella che ci permette è una “comunione personalissima: intima. Ma vissuta in pubblico e condivisa con una collettività”: “in questa cosa che chiamiamo ‘patrimonio culturale’ non ci sono solo il paesaggio e le opere d’arte, ma ci siamo anche noi”. E nell’avvertire il carattere non eterno di quadri, sculture, architetture “li sentiamo dolorosamente vicini alla nostra sorte. Sappiamo che un giorno ne sarà pianta la perdita. Sappiamo che, per questo, dobbiamo averne cura”. Non dimenticando che “il discorso sul patrimonio è un discorso sulla custodia, non sul possesso”, e dunque “sul senso del limite. Sull’impossibilità di un dominio che non faccia i conti con chi non c’è più, e con chi verrà”. Il patrimonio culturale si può quindi ben dire “il luogo in cui celebriamo la fragilità e il confine. E proprio per questo è un straordinaria scuola di liberazione dal senso di onnipotenza, di assenza di ogni limite, di fame di successo, che è forse il pericolo più grande per gli occidentali di oggi”, insieme alla perdita del senso della storia, di una storia fatta anche da “un’infinità di uomini senza nome”: accostandoci al patrimonio culturale “noi senza storia di oggi riusciamo forse a vedere l’opera dei senza storia di ieri”, degli artefici materiali di quel patrimonio, non solo dei potenti che vollero la realizzazione. Ecco perché “il patrimonio è per eccellenza luogo, e palestra, di scontro. E proprio per questo è così importante per la democrazia, perché offre una educazione sentimentale al conflitto, e insegna l’arte di ricomporlo in equilibri diversi, più avanzati”, lungi dall’essere invece “luogo senza contrapposizioni, deputato all’intrattenimento e allo svago”. Così infatti lo presenta la visione oggi dominante, tesa a nascondere non solo il conflitto “fra passato e presente, ma [anche] quello tra interesse privato e interesse generale”, e fra una pretesa quanto immaginaria identità nazionale e un’“identità porosa” come quella degli italiani, “multiculturali per storia e cultura”.
Si tratta, in conclusione, di “guardare le pietre, vedere le persone: quelle di ieri, quelle di oggi, quelle di domani”, e di impostare quindi “un’educazione a non renderci impermeabili a questi nessi, a vedere, e a sentire attraverso la nostra pelle, l’urgenza del racconto ‘umano’ di queste pietre e di queste presenze” che ci permettono di “staccarci dal presente non per evasione, o disimpegno, ma per interessarci con più presa, con più consapevolezza. Con più umanità”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.