Crisi ambientale, crisi di civiltà

Bruno Latour, Come abitare la Terra. Conversazioni con Nicolas Truong, Einaudi 2024 (pp. 85, euro 13)

Autore di riferimento per chi si è persuaso che la crisi ambientale non è comparabile – nella sua pervasività e nella sua irreversibilità – a quelle che gli uomini hanno dovuto e devono affrontare, e dunque non a caso presente in queste note (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, il 9 settembre 2018, e Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, il 25 settembre 2022), Bruno Latour, scomparso un paio d’anni fa, resta fedele in questo piccolo libro al tono colloquiale che lo contraddistingue e al suo linguaggio – apparentemente – semplice.

“Ho una certa età [poco più di 70 anni all’epoca dell’intervista qui raccolta], e questo è il momento in cui si guarda a che cosa si è fatto: “apparentemente mi sono interessato a temi molto diversi (…). Un percorso difficile da seguire (…). [Ma] mi sono disperso molto poco. Ho seguito una linea dall’inizio alla fine, che è giunto il momento di provare a chiarire”. A partire da una constatazione: “siamo afflitti da tutte le trasformazioni di cui si parla quotidianamente sui giornali, dalla questione del clima, dalle riunioni internazionali in cui si cerca un modo di controllare la biodiversità. E anche dalla questione di cosa siano il progresso e l’abbondanza. Ci accorgiamo che tali questioni sono associate al momento nel quale vivevamo fino a poco tempo fa: un momento organizzato intorno al principio che le cose non hanno la capacità di agire.”

Qui sta il punto, su cui Latour ha il merito di aver insistito: l’indifferenza, la rimozione, la fatica – comunque – a riconoscere la portata della crisi ambientale trae alimento anche da una sostanziale sfasatura culturale: “Eravamo abituati a pensare che il mondo fosse fatto di cose e di esseri che non hanno la medesima agency. Il grande filosofo inglese Whitehead l’aveva chiamata ‘biforcazione della natura’. È l’idea che a partire da una certa epoca, all’incirca dal XVII secolo, il mondo si sia strutturato intorno alla frattura tra le cose da una parte, conosciute dalla scienza ma inaccessibili al di fuori di essa, e i viventi dall’altra (…). I moderni hanno avuto una cosmologia (…) fondata sulla divisione, ossia sulla distinzione tra un ‘mondo degli oggetti’, per dirla con Philippe Descola – autore sul quale si sofferma la nota del 9 gennaio 2022 – e un soggetto che ne era in qualche modo distante. Quando ora si affronta la questione del clima e dei virus, tale distinzione svanisce: nessuno può dire che esistono soggetti distanti dal mondo nel quale viviamo”.

È ora di riconoscere che “‘Moderno’ è stata la parola d’ordine che ha organizzato il fronte della modernizzazione, prossimo alla fine perché ci rendiamo conto che in questo momento esiste un fronte di distruzione. Molti ormai sono d’accordo che non arriveremo a modernizzare il pianeta, e se lo modernizziamo, il pianeta sparisce”.

Non ci si può più nascondere che “i viventi non solo soltanto organismi in un ambiente, ma hanno la particolarità di trasformare l’ambiente a loro vantaggio. Non tramite la generosità o l’amicizia, ma per semplice interconnessione (…). Un vivente ha un metabolismo. Assorbe una marea di stranezze e le stranezze che risputa sono impiegate da altri come opportunità. Ci sono voluti quattro miliardi di anni. Ma è questo riciclaggio che ha finito col creare le condizioni di cui possiamo godere. È qui che entra in gioco il problema fondamentale della nuova cosmologia, dell’abitabilità del pianeta, la questione di come lo si mantiene abitabile e – ecco il passaggio che chiarisce la politicità del discorso ambientale – di come si combatte contro coloro che lo rendono inabitabile”: “le questioni ecologiche stanno diventando l’equivalente delle questioni politiche di un tempo, cioè quelle di cui è legittimo e interessante discutere”.

Senonché, anche il carattere politico della battaglia in difesa dell’ambiente deve aggiornare strumenti e orizzonti, perché “le appartenenze e le affiliazioni non sono più le stesse. È questo che intendo parlando di comparsa di una nuova classe. Non nel senso tradizionale, d’ispirazione marxista, delle classi sociali, ma piuttosto nel senso in cui Norbert Elias (…) ha parlato di classi di cultura. Verrà il momento in cui la questione ecologica diventerà centrale, ed è in tale cultura che si definiranno le associazioni e le linee di demarcazione tra amici e nemici. Il che – ammette tuttavia Latour – per ora rimane complicato, perché non ne sappiamo granché. (…) Noi, la classe ecologica, diciamo con orgoglio: ‘Siamo noi che rappresentiamo la nuova razionalità e il nuovo processo di civilizzazione, perché teniamo conto del problema fondamentale delle condizioni di abitabilità del pianeta’. Questa ridefinizione dell’orizzonte di azione, questa proiezione sull’orizzonte temporale, è assente dalla politica attuale ed è all’origine del suo intero fallimento. La classe liberale borghese parla di ripresa economica, ma non ci mette il cuore”, non tiene conto del fatto che una classe “è innanzitutto un progetto”. E, occorre riconoscerlo, “oggi non c’è ancora una classe che dica: ‘Prendiamo noi le redini, siamo noi l’orizzonte temporale’”. Una classe pienamente consapevole che “Prosperità e progresso non sono la medesima cosa”, e dunque “non si tratta di replicare l’emancipazione di una volta, ignorando le condizioni di esistenza e andando a briglie sciolte come in passato, ma di trovare un’altra emancipazione riconoscendo di dipendere da tutti gli altri esseri”. Dobbiamo apertamente dichiarare che “noi abbiamo ‘una grande narrazione sostitutiva’. È quello che ha fatto il socialismo: per cinquant’anni ha creato narrazioni alternative della storia, dell’evoluzione”. E dunque, riconoscendo una continuità e insieme assumendosi la responsabilità di una discontinuità, “anche gli ecologisti devono far questo lavoro, ridefinire che cosa sono la storia e la scienza e ridefinire l’orizzonte temporale, che non deve essere necessariamente quello del progresso, dello sviluppo o della fuga su Marte” (“La faccenda della modernità – il fatto di averci trasportato in un mondo inabitabile, puramente utopico, ‘fuori terra’ – è simboleggiata magnificamente dall’idea di andare su Marte”).

Il lungo, complesso lavoro di ridefinizione che appare necessario deve però aver presente che “non si possono affrontare [le] questioni ecologiche senza le arti. Senza i sentimenti che permettono di metabolizzare la questione ecologica, lo sforzo è troppo pesante. Si finisce per provare semplicemente una stretta allo stomaco e il lavoro diventa insormontabile. Bisogna quindi trovare associazioni tra metodi diversi. (…) mettere in scena uno spettacolo teatrale è importante quanto scrivere un manuale di economia o di sociologia!”

In conclusione, “[oggi] assistiamo alla fine della modernità tentando di comprendere come ritrovare i valori della politica. È di fatto un’occasione di ricivilizzazione. Ci eravamo civilizzati con la modernità, ma male (…).Ora possiamo ricivilizzarci con la questione ecologica”: “Dobbiamo dotare i nostri figli e nipoti di mezzi terapeutici che consentano loro di resistere alla disperazione. (…) Sarà dura per vent’anni, ma penso che i vent’anni successivi troveranno il modo di riprendere il processo di civilizzazione rimasto sospeso nel periodo attuale”.

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