Arrivare alla fine, come si può

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Richard Ford, Per sempre, Feltrinelli 2024 (pp. 360, euro 22)

Frank Bascombe, ultimo capitolo. Così ha assicurato lo scrittore in un’intervista recente. Il suo personaggio, protagonista di precedenti romanzi, è ora un settantaquattrenne alle prese con strascichi di malattie e acciacchi dell’età, ma soprattutto con il compito che si è assunto: assistere Paul, un quarantasettenne affetto da Sla in fase terminale e dunque prossimo alla fine. Suo figlio. Ancora in gradi di muoversi, sia pure stentatamente: che cosa offrirgli dunque se non un viaggio? Affittare un camper dunque, e darsi una meta: lui, il padre, c’era stato portato dai genitori negli anni ’50. Perché non portarci ora suo figlio al Mount Rushmore, quello dove sono scolpiti i volti di Washington, Jefferson, Roosevelt I e Lincoln?

Frank lascia dunque il suo lavoro part time in un’agenzia immobiliare, interrompe quella “graduale, a volte impercettibile successione di tempo” che è stata la sua vita, “nella quale non accadeva nulla di superlativo, ma nemmeno nulla a cui non si potesse sopravvivere, e quasi tutto piuttosto accettabile”. È fatto così, quest’uomo, sa che correr dietro alla felicità non serve. Anche se non vi rinuncia è d’accordo con il poeta Larkin che, “quando un giornalista gli chiese: ‘pensa che avrebbe potuto essere più felice nella vita?’, rispose: “No, a meno di non essere qualcun altro’”.

A suo modo simile è il figlio. Determinato a prendersi quel poco che ancora la vita gli può dare più che a eludere la propria condizione. Si presta a sottoporsi a una “sperimentazione clinica” ma senza contarci più di tanto, facendoci dell’ironia se mai: “Lo faccio per i posteri”, spiega al padre, che però lo sa: Paul la pensa come lui, crede che “le cose fatte per i posteri siano tutte minchiate”.

Il dialogo fra i due, non di rado teso, fino all’insulto, più spesso dettato da un ruvido, a volte surreale, senso dell’umorismo, è il filo che lega la narrazione, ma è molto quello che il padre tiene per sé nell’accudire il figlio senza velleità di controllo né paternalismi, sforzandosi piuttosto di essergli vicino per quel che è possibile. Senza nascondersi che, pur sentendosi “morire insieme a lui”, non potrà colmare la distanza, la solitudine che la morte comporta, perché “”il moribondo fa sentire escluso e inadeguato chi non sta morendo, perché morire è una lotta che non somiglia a nessun’altra”. “Come dice quel vecchio ammuffito di Heidegger – eh sì, Frank è, saltuariamente, un lettore del filosofo del vivere per la morte –, solo la piena consapevolezza della morte consente di apprezzare la pienezza e il mistero dell’essere. E perepè, perepè, perepè”. Bei discorsi insomma, che non risolvono comunque il problema di fondo. “Le cose finiscono e il loro lato più interessante forse è questo”, infatti, ma ciò non toglie che “è diverso se quello che finisce sei tu”.

Comprensibile che un uomo dell’età di Frank faccia i conti con la fine, addirittura inevitabile che ci pensi se deve confrontarsi ogni momento con una vita agli sgoccioli com’è quella di Paul. Ma se il padre scherza sulla propria vecchiaia (“Non giudicatemi finché non sarete nei miei pannoloni”), il figlio non è da meno quando si immagina come “il testimonial della morte dignitosa”, rappresentativo al punto da poter “fare pubblicità in tivù”. Perché neanche la morte sfugge alla superficialità imperante e al clima di ottimismo obbligatorio che percorre un paesaggio urbano ormai assimilato a quello dei centri commerciali, della montagna di merci che esibiscono e del ventaglio di messaggi promozionali e occasioni di intrattenimento che offrono. Fan parte di questo stesso paesaggio i due protagonisti, sono persone comuni, non diverse dalle altre, eppure la voce narrante – quella di Frank – lascia trasparire uno sguardo critico, non polemico né risentito, ma che in qualche misura denuncia una resistenza, una volontà di restare umani in un mondo in cui persino le parole che le persone si scambiano, le occasionali relazioni che intrattengono, suonano artefatte, aderenti a modelli eterodiretti per quanto sembrino conservare una fugace capacità di stabilire una comunicazione: “stiamo facendo quello che fanno gi americani – riflette Frank mentre chiacchiera con la proprietaria dell’albergo in cui si sono fermati –, scambiamo una conversazione che non è una vera conversazione pur riuscendo a formare una specie di legame”. Solo il dialogo fra padre e figlio sfugge a questa logica, almeno nei momenti in cui sa affrontare la loro situazione, come quando il vecchio pensa che si potrebbe dire che “ci stiamo occupando l’uno dell’altro, ma non è vero. Più che altro siamo soli”. Eppure lo deve ammettere: “mio figlio, qualunque cosa sia ora, in questo drastico crocevia dell’esistenza, mi commuove. Dovrebbe esserci una parola per definirlo – magari la conoscessi –, una parola da inserire in tutti i necrologi per aiutarli a dire la verità sull’esistenza umana, Non so quale sia questa parola, ma di sicuro non è ‘coraggio’”. Non è stringere i denti, ma manifestare senza vergogna la propria debolezza e dar la possibilità di non perdere la bussola: non è adeguarsi all’andazzo generale per paura di ritrovarsi soli, diversi dagli altri. Inutile allinearsi agli sguardi tra il deferente e l’annoiato che si rivolgono ai volti dei quattro presidenti, quando alla fine ci arrivano: “oggi nessuno di questi candidati prenderebbe un voto: schiavisti, misogini, omofobi, guerrafondai, tutti paraculi che non avevano niente da perdere”, pensa Frank, mentre Paul sceglie la via che predilige, quella del paradosso, per definire lo spettacolo del Mount Rushmore: “Sai perché è fantastico? (…) perché è completamente inutile e ridicolo (…) Al mondo ci sono troppe poche cose fatte apposta con questa stupidità”. È un momento di assonanza fra i due, che il padre avverte con moderata soddisfazione: “io sono felice di credere che per una volta cediamo la stessa cosa allo stesso modo – più o meno. In effetti tutto questo è inutile, e stupido. Vederlo forse non potrà guarirlo, ma gli farà bene”.

La fine della storia era inscritta nel suo inizio: Paul muore, poche settimane dopo il suo ultimo viaggio. E al padre non resta che constatare che “se la morte è davvero un mezzo per comunicare, il messaggio riguarda la vita: la cosa più importante della vita è che finisce, e quando finisce, ognuno, da solo o in compagnia, muore a modo proprio. Quale? Non lo sappiamo. (…) io so solo una cosa: quando Paul ha lasciato la sua vita io non ho lasciato la mia”. Se ancora occhieggia, in affermazioni come questa, il pensiero del filosofo frequentato, Frank ha comunque deciso: ha smesso di leggere “quel vecchio nazi di Heidegger”, non tanto per i suoi imbarazzanti trascorsi politici, quanto per il fatto che si è reso conto che “Heidegger rende la vita – già dura di suo – un po’ più difficile”. E “arrivare alla fine è difficile, ho pensato. Ma non dev’essere così difficile”.

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