Da Pedro Almódovar a Sigfrid Nunez

Sigfrid Nunez, Attraverso la vita, Garzanti 2024 (pp. 192, euro 18) e Il compagno fedele, Garzanti 2020 (pp. 224, euro 12).

Quando avvertiamo che un film appena visto è di quelli che ricorderemo e sappiamo che ha alle spalle un libro, può succedere che proviamo il desiderio di conoscere anche quest’ultimo. Non per fare l’ovvio, e spesso inutile o fuorviante, confronto (meglio il libro, è il più delle volte la conclusione), ma per trovare ragioni in più al proprio apprezzamento. Qualcosa di simile mi è capitato dopo aver visto l’ultimo film di Almodóvar, La stanza accanto, ma, appunto, è dei temi presenti in Attraverso la vita, il romanzo di Sigfrid Nunez che l’ha ispirato, che questa Nota intende occuparsi, riproponendone alcuni passaggi.

La crisi ambientale, in primo luogo, sul cui approdo non pare esserci ragione di dubitare dal momento che “l’umanità, ormai (è) chiaro, non (ha) la volontà collettiva di prendere iniziative, agire o accettare sacrifici per cercare di prevenire la catastrofe”. E questo perché, al fondo, “non c’(è) più quella fiducia, quella consolazione che aveva sostenuto generazioni e generazioni prima di noi, la certezza che se anche la nostra permanenza sulla Terra (ha) una scadenza, tutto ciò che amavamo e aveva significato per noi sarebbe andato avanti, il mondo di cui avevamo fatto parte avrebbe continuato ad esistere. Quei tempi erano finiti. Il nostro mondo e la nostra civiltà non sarebbero durati. (Dobbiamo) vivere e morire con questa nuova consapevolezza. (…) Non ci (resta) che sperare che con l’estinzione del genere umano il pianeta (abbia) qualche possibilità di sopravvivenza. Il regno degli animali purtroppo (è) spacciato. Anche se il male non (proviene) certo da loro, i primati e tutte le altre creature – cioè le specie non ancora annientate dall’attività umana – (sono) condannate insieme a noi”. Ma il disastro è tale anche, e soprattutto, perché ne manca la consapevolezza, o ci si comporta come non la si avesse: “Né i disastri meteorologici che (accadono) una stagione dietro l’altra, né il rischio di estinzione di un milione di specie animali in tutto il mondo (sono) reputati abbastanza gravi da finire in cima alla lista delle preoccupazioni. E com’(è) triste vedere così tanti individui fra i più colti e creativi della nostra società, da cui ci si sarebbe potuti aspettare qualche soluzione inventiva, ricorrere a terapie personali e pratiche pseudo religiose che (promuovono) il distacco, l’attenzione al momento presente, l’accettazione della realtà personale, l’equanimità di fronte ai mali del mondo”. Ma non c’è via d’uscita individuale: “La smania di mindfulness (è) solo l’ennesima distrazione. (…) Gli sforzi individuali per raggiungere la pace interiore o la compassione verso gli esseri viventi non (incentivano) alcun intervento tempestivo. Questo (può) scaturire solo da un’ossessione collettiva, fanatica, esagerata di fronte alla rovina incombente”.

Una diagnosi senza possibilità di soluzione, solo di mitigazione se mai: “Una cosa che (dovremmo) chiederci sin da subito (è) se (sia) il caso o meno di fare figli. (…) Forse (sarebbe) un errore far nascere altri esseri umani in un mondo che nel corso della loro vita (ha) elevate probabilità di diventare un luogo sempre più squallido e terrificante, se non completamente invivibile. (…) Forse è proprio questa la nostra ultima possibilità di redenzione. L’unica risoluzione sensata ed eticamente corretta da adottare di fronte alla fine imminente della civiltà attuale: imparare a chiedere perdono e rimediare sia pure in minima parte ai danni terrificanti inflitti alla nostra famiglia umana, alle altre creature e alla nostra bellissima terra. Fare del nostro meglio per amarci e perdonarci a vicenda. E imparare a dire addio”.

E, ancor prima di quel momento, essere gentili gli uni con gli altri, “perché – secondo l’avvertenza attribuita a Platone – ogni persona che incontri sta già combattendo una dura battaglia.”

Consapevole, si direbbe, della radicalità cui il suo discorso è arrivato, l’autrice si sofferma sulla questione della denatalità: “l’idea per cui la procreazione sarebbe una scelta eticamente sbagliata non è certo una novità (…). In realtà, è vecchissima. La vita è sofferenza, la nascita alimenta la morte. Mettere al mondo una persona che non ha modo di opporsi alla tua decisione è una scelta moralmente ingiustificabile, afferma una certa filosofia antinatalista. Il fatto che la vita possa donare anche tanto piacere non cambia nulla. Se non nasci, non senti neppure la mancanza dei piaceri della vita. Una volta nato, sei costretto a sopportare innumerevoli dolori fisici ed emotivi, come quelli legati all’invecchiamento, alla malattia e alla morte. L’eventualità che in futuro la vita possa essere più felice e meno dolorosa non giustifica in alcun modo la sofferenza che esiste al giorno d’oggi. E in ogni caso, secondo un famoso antinatalista contemporaneo, l’idea stessa che il futuro possa essere migliore del presente è un’illusione, Il problema fondamentale, sostiene lo stesso antinatalista, risiede da sempre nella natura umana. Sì, tutto potrebbe essere diverso, ma questo richiederebbe che fossimo una specie diversa. Gli umani non imparano dalle proprie esperienze: continuano a ripetere sempre gli stessi terribili errori.”

È su questo sfondo che si staglia la vicenda della malattia incurabile dell’amica, che la narratrice ha accettato di assistere nei suoi ultimi giorni, precedenti il suicidio destinato, per esplicita volontà dell’interessata, a concluderli.

A raccordare i due piani, la Fine del pianeta, data ormai per prevedibile e inevitabile, e l’ordinaria fine individuale, la considerazione che “si potrebbe pensare che se ci convincessimo che sia tutto orribile e che il futuro sarà di uno squallore assoluto, sarebbe più facile lasciare questa vita. Io, però – confessa la malata –, non sopporto l’idea che dopo la mia scomparsa il mondo non continuerà a esistere e a essere infinitamente ricco e infinitamente bello. Se mi togliete quello, non mi rimane più alcuna consolazione”.

Il discorso si allarga dai sentimenti alterni che la morente prova (oscillando tra euforia e depressione, tra speranza e disperazione) alla morte in generale e agli atteggiamenti che essa suscita.

“La maggioranza delle persone non accetta l’invecchiamento, così come non accetta la morte. Pur osservando il fenomeno ovunque, pur avendo sotto il naso l’esempio dei genitori e dei nonni, non recepiscono il messaggio, non credono fino in fondo che succederà anche a loro. Agli altri sì, a tutti tranne che a loro”.

E qui l’atteggiamento laico dell’autrice, alieno dalla suggestione del memento mori, dall’illusione che sia possibile prepararsi alla morte, affiora deciso (“personalmente, ho sempre pensato che questa tendenza sia una benedizione. Una gioventù appesantita dalla piena consapevolezza di quanto triste e doloroso sia l’invecchiamento non la chiamerei neppure gioventù”), così come si impone, di fronte all’evento morte, un realismo senza sconti: “fare una bella morte. Tutti sanno cosa significa. Senza dolori o almeno senza spasmi e agonie. Andarsene in modo composto, con un po’ di dignità. Puliti e asciutti. (Succede) spesso? Non molto, a dire il vero. Perché no? (È) pretendere troppo?”

La nuda, scabra materialità della morte dunque, ma anche la sua irredimibile solitudine: “Qualcuno ha detto che quando veniamo al mondo siamo come minimo in due, ma quando ce ne andiamo siamo soli. La morte arriva per tutti, eppure rimane l’esperienza umana più solitaria in assoluto, l’esperienza che non unisce ma separa.”

Del resto, “morire è un ruolo che interpretiamo come qualsiasi altro ruolo nella vita: è un pensiero inquietante. Siamo autentici solo quando ci troviamo da soli; ma chi vuole rimanere da solo mentre muore?”

***

Può accadere anche che dopo il film e il suo libro di riferimento, sia l’autore del secondo a incuriosire, e allora si cerca nella sua produzione fino a individuare un altro libro che vale la pena di considerare. Per quanto riguarda Nunez, è il caso dell’Amico fedele, nel quale la nostra relazione con gli animali – solo toccata nel romanzo di cui si è finora parlato – è al centro della narrazione. L’amico di sui l’autrice parla è infatti un cane, un grosso cane che le è stato affidato e che, pur contro la sua volontà, all’inizio, ha poi accudito per anni. Una convivenza che ha fatto maturare in lei interpretazioni illuminanti. Per esempio quella della compassione per gli animali che soffrono, talvolta più sentita di quella provata per altri esseri umani: un sentimento spesso liquidato con superficialità, se non condannato apertamente.

“Perché spesso la gente trova più difficile da sopportare la sofferenza degli animali che quella degli esseri umani? (…) Io credo che l’intensità della passione che si prova per un animale sia collegata al modo in cui suscita la compassione per sé stessi. Sono convinta che per tutta la vita, conserviamo un vivo ricordo dei primi momenti della nostra esistenza, un’epoca i cui eravamo tanto animali quanto umani, con le soverchianti sensazioni d’impotenza e di vulnerabilità e di silenziosa paura, e con un anelito di protezione di cui il nostro istinto ci rivelerebbe la presenza, se solo sapessimo piangere abbastanza forte. L’innocenza è qualcosa attraverso cui noi esseri umani passiamo lasciandocela poi alle spalle senza potervi fare ritorno. Ma gli animali vivono e muoiono in questa condizione, e vedere l’innocenza violata (…) può sembrare l’atto più malvagio del mondo. Conosco persone oltraggiate da questo sentimento, che definiscono cinico, misantropico e perverso. Ma io credo che il giorno in cui non saremo più in grado di avvertirlo sarà un giorno terribile per ogni essere vivente e la nostra discesa nella violenza e nella barbarie ancora più rapida.”

A considerazioni di questo genere la protagonista giunge grazie all’empatia che via via cresce in lei nei confronti dell’animale che vive con lei, fino a indurre la sua immaginazione a momenti di immedesimazione (“Penso a quanto debba essere frustrante per un cane l’interminabile fatica di farsi capire da un essere umano”) o a suggerirle domande spiazzanti: “Che cosa pensano i cani quando vedono qualcuno piangere? Allevati per dare conforto, ci consolano. Ma come deve lasciarli interdetti l’infelicità umana. Noi che possiamo riempirci il piatto ogni volta e con tutto il cibo che vogliamo, che possiamo uscire quando ci va, e correre liberamente – noi che non abbiamo un padrone da soddisfare di continuo o a cui obbedire”. La conclusione è inevitabile: “Noi esseri umani non sappiamo nemmeno la metà di ciò che c’è da sapere sul funzionamento del cervello dei cani. Può darsi che, nel loro modo muto e insondabile, ci conoscano meglio di quanto noi conosciamo loro.” E su questa posizione la protagonista sa di non trovarsi da sola: “Rilke, che amava i cani e li osservava attentamente e condivideva una illimitata comunanza con loro (…) una volta trovò nello sguardo implorante di una randagia brutta e gravida incontrata fuori da un caffè in Spagna tutto ciò che indaga al di là dell’anima solitaria e va Dio sa dove – nel futuro o in ciò che supera la comprensione. Le diede la zolletta di zucchero del suo caffè e, scrisse dopo, fu come celebrare insieme la messa.”

Sensibilità di poeta, o piuttosto atteggiamento nativo di tutti? L’autrice tende senz’altro a pensare che ognuno di noi lo condivida o, meglio: l’abbia condiviso: “Quando qualcuno è molto giovane vede gli animali come suoi pari, persino come dei congiunti. Che gli esseri umani sono diversi, unici e superiori a tutte le altre specie è qualcosa che si deve insegnare.” E che sta alla letteratura decostruire, riportandoci al significato profondo del nostro rapporto con gli animali: “Idilliache è il modo in cui Kundera descrive le relazioni umane con gli animali. Idilliache perché gli animali non furono espulsi dal paradiso insieme con noi. Lì rimangono senza essere turbati da complicazione come la separazione del corpo e dell’anima, ed è tramite il nostro amore e la nostra amicizia con loro che siamo in grado di riconnetterci con il paradiso, benché solo attraverso un filo.”

Non è casuale, ma frutto di un percorso culturalmente sedimentato, il passaggio dalla considerazione del modo di stare al mondo degli animali al confronto – ammesso che sia possibile – tra la loro e la nostra relazione con la morte: “È convinzione diffusa che, benché gli animali non sappiano che un giorno moriranno, molti di loro sappiano invece quando stanno per moire davvero. Quindi a che punto un animale morente diventa consapevole di ciò che accade? Potrebbe essere molto tempo prima? E come reagiscono gli animali all’invecchiamento? Sono completamente attoniti o in qualche modo intuiscono il significato di quei segni?”

Ritroviamo così il preannuncio del tema che, come si è visto, dominerà Attraverso la vita, declinato qui sul versante del lutto che la morte induce, la morte di un essere che si ama, non importa se umano o meno, stando alla “famosa definizione dell’amore” offerta da Rilke, secondo il quale “in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda”.

Era dunque amore quello che ha legato per anni la padrona al suo cane, la cui morte appare un dato insuperabile:“Vogliono che torni in me prima che sia troppo tardi. Devo trovare un modo migliore per affrontare il mio cordoglio e i sensi di colpa. Ho bisogno di una terapia del lutto. Ecco dei nomi. Dovrei pensare ad assumere dei farmaci. (…) Ci sono libri. Ci sono siti web. Ci sono gruppi di sostegno”. Una diffusa insofferenza del lutto, quella constata dalla protagonista, che nasconde una paura, la paura della morte, e intende scongiurare il pericolo di essere destabilizzati dal pensiero di essa, refrattari a riconoscere che “ciò che ci manca, ciò che perdiamo e di cui piangiamo la perdita (…) è ciò che, in profondità, ci rende quello che siamo veramente”.

E infine, la scrittura, tema che immancabilmente occupa un posto di primo piano in molta della narrativa contemporanea.

La scrittura e i suoi destini nel nostro mondo pervaso dalle tecnologie e dagli strumenti nuovi di comunicazione: “I telefoni cellulari non appartengono alla narrativa, mi rimproverò una volta un redattore scrivendo una nota a margine di un mio manoscritto e da allora – sono passati più di vent’anni, non ho mai smesso di stupirmi per la dissociazione tra una vita piena di tecnologia e dei racconti che ne sono privi”. Una circostanza che dà ragione a Kurt Vonnegut, “sec cui i romanzi che escludono la tecnologia snaturano la vita quanto i vittoriani la snaturavano escludendo il sesso”.

La scrittura, e il suo corrispettivo, la lettura: “Bisogna permettere agli studenti di leggere i libri sui loro smartphone? La maggioranza è risoluta: d’accordo per gli altri dispositivi elettronici, ma per l’amore del cielo non gli smartphone. Qual è la logica, se parliamo soltanto delle dimensioni dello schermo? Non è come dire che non possono leggere i libri stampati in edizione tascabile?”.

Ma al di là delle circostanze attuali, ci sono ragioni per cui l’approccio alla pratica della scrittura deve essere cauto, capace di considerare, al di là di ogni mitologia, il pro e il contro: “La mia prima insegnante di scrittura diceva sempre ai suoi studenti che se c’era qualcos’altro che potevano fare nella vita invece di diventare scrittori, qualsiasi altra professione, dovevano cogliere l’opportunità”. Una raccomandazione in linea con l’ammissione del già citato Rilke, secondo il quale “una persona che sente di poter vivere senza scrivere non dovrebbe affatto scrivere”.

Se non altro perché, occorre riconoscerlo: “Scrivi qualcosa perché speri di dominarlo. Scrivi di determinate esperienze in parte per capire ciò che significano, in parte per non perderle nel tempo. Nell’oblio. Ma c’è sempre il rischio che accada l’opposto. Perdere il ricordo dell’esperienza in sé in cambio del ricordo dello scrivere. Come le persone il cui ricordo dei posti dove hanno viaggiato è in realtà solo il ricordo delle fotografie che vi hanno scattato. Alla fine, probabilmente, la scrittura e la fotografia distruggono più passato di quanto ne conservino”.

Una scrittrice, Sigfrid Nunez, che non offre rassicurazioni, in conclusione, ma usa la trama narrativa piegandola a una riflessione spesso inquietante sugli aspetti decisivi della vita, e della morte.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *