
Paolo Malaguti, Fumana, Einaudi 2024 (pp. 300, euro 20)
Dopo la montagna del Moro della cima e la foresta brasiliana di Piero fa la Merica (in queste note nel giugno 2022 e nel luglio dell’anno seguente), Malaguti torna all’ambiente fluviale di Se l’acqua ride (in queste note nel novembre 2020), a quella “fetta bastarda di mondo dove i fiumi si impantanano, che pare la menino di lungo, prima di andare a crepare in mare, proprio come i cristiani, che finché sono giovani buttano via i giorni e le settimane e quando si accorgono di essere arrivati in fondo iniziano a tirare indietro, e a fare tesoro di ogni ora che gli resta da campare”.
Il paesaggio nelle diverse stagioni e gli esseri che lo animano – dal fiume agli uccelli agli umani –, riflessioni sulla vita e le sue età dettate da una saggezza antica, una scrittura che si tiene vicina al parlato: queste le componenti essenziali di un romanzo che racconta, sullo sfondo della Storia, vicende di senza storia. Come la protagonista, nata durante una piena dell’Adige, cresciuta con il nonno, il vecchio Petrolio, così detto perché pescatore notturno e dunque sempre alla ricerca di combustibile per la sua lampada, ma da giovane, negli anni ’80 dell’800, partecipe attivo della protesta contadina, in una terra che anche nel secolo seguente resterà “un semenzaio di anarchici, repubblicani e socialisti”. Una terra, quella del Rovigotto, spesso invasa da nebbioni nei quali alla bambina piace perdersi, tanto da meritarsi il nome di Fumana, come è detta la nebbia in diversi dialetti padani. Vestita così spartanamente da sembrare un maschio, non fosse per i capelli neri e ricci, segue il nonno sul suo sandolo e impara a pescare, anche se, a differenza di Petrolio, per lei i pesci non sono solo cibo, ma creature che sente di dover ringraziare uno per uno quando si fanno prendere. E dopo l’infanzia, l’adolescenza, l’incontro fatale con il quasi coetaneo Luca, ma soprattutto quello con Lena, la “strigossa” del paese, la guaritrice che vede subito in Fumana una degna erede essendo anche lei “nata con la camicia”, com’erano detti i bambini avvolti, al momento della nascita, nel sacco amniotico e perciò ritenuti favoriti dalla sorte e in qualche modo portatori di qualità non comuni. È qui che il sapere popolare – sul quale l’autore si è documentato a fondo, come testimoniano le pagine di testimonianze orali e la nota finale – diventa protagonista del racconto, senza mai gravarlo di nozioni ma assumendo toni evocativi e insieme capacità di coinvolgere il lettore in una trama che continuamente si apre a soluzioni imprevedibili.

Ormai strigossa riconosciuta, Fumana deve pagare il prezzo dell’ambivalenza con cui la comunità guarda alle guaritrici: riconoscente da un lato, diffidente dall’altro, tanto da suscitare la contrarietà della famiglia di Luca al matrimonio e obbligare i due giovani a metterla davanti al fatto compiuto. Alla lunga però, complice il fatto che di figli non ne arrivano, tra Fumana e Luca si consuma una rottura insanabile, che si aggiunge ad altre disgrazie: la morte di Petrolio, in primo luogo, e più tardi quella di Lena, ma anche la guerra, la prima, e la povertà che si diffonde nelle campagne. È allora che Fumana, la cui fama è andata crescendo e le assicura di che vivere – anche se il suo lavoro è di quelli che chiedono in contraccambio solo offerte, alimentari per lo più –, adotta un’orfanella, resa muta dal dolore precoce: Fumana non è più sola ad affrontare i rivolgimenti che cambiano per sempre i luoghi in cui era cresciuta: la costruzione, nell’immediato dopoguerra, di un’idrovora è solo l’avvio della campagna di bonifiche che promuoverà il regime negli anni seguenti. Più terra da coltivare ma anche, per Fumana, la dolorosa fine dei nebbioni della sua infanzia. Altro però attende la strigossa: l’arrivo di un medico insidia la sua pratica, mentre la sua dichiarata avversione nei confronti del regime le costerà l’internamento in manicomio della bambina che ama ormai come fosse sua figlia.
A Fumana non resta che rifugiarsi nella sua palude, o in quel che ne resta, confinandosi in una solitudine che, anno dopo anno, la porta a scoprire che “al di là del dolore, che conservava gelosamente dentro di sé, come un’ostia nel tabernacolo, non le dispiaceva vivere quella nuova, inattesa stagione della sua vita (…). Guardava, ascoltava, lasciava che poco per volta le vite e le morti della valle prendessero il sopravvento”. E difatti la fine giungerà anche per Fumana. Non per la sua figlia adottiva, però, le cui vicende concludono il romanzo.