Kent Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017 (pp. 175, euro 17)
“Voglio sapere cosa pensi.
Di cosa?
Del fatto di stare qui.
Ormai riesco ad accettarlo.
Mi sembra una cosa normale.
Normale e basta? (…)
La verità è che mi piace. Mi piace molto. Se non lo facessimo mi mancherebbe. Tu che ne pensi?
Adoro questa cosa. E’ meglio di quel che speravo. E’ una specie di mistero. Mi piace per il senso di amicizia. Mi piace il tempo che passiamo insieme. Starcene qui al buio di notte. Parlare. Sentirti respirare accanto a me se mi sveglio.”
Tutto qui. Passano la notte nello stesso letto, e parlano. Due vedovi attempati, vicini di casa. È stata lei a prendere l’iniziativa: “mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me”. E lui, dapprima imbarazzato come un ragazzo – ma capace di vedere dentro di sé come solo chi non è più un ragazzo talvolta sa fare – ci sta. Perché lo capisce, anche lui, che non stanno unendo due solitudini, ma il loro desiderio, ancora vivo: il desiderio di raccontarsi, di raccontare la propria vita e insieme le vite cui si è rinunciato, o che non ci è accorti di volere davvero, quand’era il momento (lui da giovane scriveva poesie, nei ritagli di tempo, come il protagonista di Paterson, il bel film di Jarmusch).
Il loro desiderio, perciò, è quello fondamentale, o che tale dovrebbe mantenersi nella vita: il desiderio di capire chi si è, senza rimpianti per il chi si è stati o non si è riusciti a essere, e senza timori per quel che potrà accadere, né per la propria reputazione. Siamo sempre nella piccola immaginaria Holt della fortunata trilogia che ha fatto conoscere Haruf in Italia, e a nessuno sfuggirà quella loro strana indefinibile frequentazione. Tantomeno al figlio, il padre del bambino che subito si è inserito nella vita della coppia e vi ha trovato il calore e la serenità che la sua famiglia non gli sa offrire. Ma il fatto che la storia non abbia un lieto fine – a meno che come tale si voglia interpretare la rinuncia che i due finiranno con l’accettare – non compromette la scoperta che, l’uno grazie all’altra, hanno fatto: la scoperta che si può, che si ha diritto a essere felici, anche se non ad ogni costo.
È questa guadagnata consapevolezza, che sommessamente attraversa, e riscalda, la narrazione, a comunicare al lettore un senso di quiete che nella scrittura piana ma sempre attenta, premurosa, di Haruf, si fa via via riconoscenza per lo scrittore, che con questo ultimo romanzo ha concluso la sua opera.