Donatella Di Pietrantonio, L’arminuta, Einaudi 2017 (pp. 163, euro 17,50)
L’arminuta, la ritornata. Nel senso di restituita: dalla famiglia che l’aveva adottata a quella vera, dalla cugina abbiente ma che non poteva avere figli alla madre.
Ma perché questa restituzione, questo ritorno forzato quando ormai è una ragazzina? Lei – che non può ricordare il passaggio da una famiglia all’altra: aveva pochi mesi quando è avvenuto – non lo sa, ed è il suo rovello. Lo capisce che la sua famiglia non l’aveva richiesta, e dunque: perché? La malattia della signora cui era stata affidata (la mamma, per lei): per molto tempo pensa che di questo si tratti. Non la potevano più tenere – la mamma sofferente, il papà taciturno e sfuggente – perché una malattia grave, forse mortale, era arrivata a sconvolgere la vita. Quella che credeva fosse la sua vita. E invece la realtà si rivelerà diversa, meno drammatica, e più crudele.
Ma non sta tanto nella vicenda il potere di coinvolgimento di questo libro, quanto nella scrittura, nel tono della voce che la narra. Un tono che dice di una sensibilità mortificata, ma che resiste con dignità alla lacerazione inflittale, in questo ricordando molte pagine della Morante, non per caso citata in esergo. Una scrittura che si impone l’essenzialità del parlato e sa accoglierne le icastiche espressioni dialettali, frutto di un’arcaicità che non ha abbandonato il costume e la mentalità, di un’esperienza della vita fatta di sopportazione, del sapere maturato in esistenze dominate dalla miseria, e consapevoli che “la miseria è più della fame”. Una scrittura tanto più convincente perché sa aprirsi in squarci che lasciano intravvedere la ricchezza di immagini e di soluzioni linguistiche che cova sotto il distacco che sembra ispirare la voce narrante: i fuochi d’artificio, sul lungomare, “si spegnevano dopo un attimo di gloria universi di stelle appena esplose, sullo sfondo freddo degli astri fissi. Sott’acqua, lontano dai nostri pensieri, lo spavento muto dei pesci”. Oppure, passando dal registro della meraviglia a quello dell’orrore e della pietà: Vincenzo, il fratello da poco ritrovato e già perduto: caduto dalla moto in corsa, “era volato sopra l’erba autunnale, fino al recinto delle mucche. Chissà se aveva visto, in quei minimi istanti staccato da terra, su cosa andava a impigliarsi. Era caduto con il collo sul filo spinato, come un angelo troppo stanco per battere le ali un’ultima volta, oltre la linea fatale. Le punte di ferro erano penetrate nella pelle, avevano aperto la trachea e reciso le arterie. Era rimasto appeso con la testa verso gli animali al pascolo (…). Le mucche si erano voltate a guardarlo, poi avevano abbassato i musi e si erano rimesse a brucare.”
Il bisogno di capire dell’arminuta non si scioglie neanche quando nella famiglia cui è stata restituita comincia a trovare rispondenze profonde, se pur laconiche, nella sorella Adriana, nella madre. Figure di donne che da comparse in una scarna vicenda di fatti si fanno via via protagoniste di una storia di sentimenti, dei sentimenti fondamentali che abitano la vita, ogni vita, e non svaniscono, a lettura finita.