Fratelli

Fratelli è il primo libro che ho scritto, nel 2007: solo uno dei racconti che lo compongono (L’esperienza) è stato pubblicato. Secondorizzonte – inaugurando la produzione di libri non solo nel formato cartaceo ma anche in quello elettronico – lo propone ora nella sua interezza nella forma del pdf e dell’epub, entrambi scaricabili gratuitamente.
Scrivere Fratelli ha significato per me vivere per la prima volta l’esperienza, sorprendente, di delineare personaggi e vederli acquisire poco a poco consistenza e autonomia: uomini e donne che si definiscono nella loro individualità e a un certo punto agiscono coerentemente con questa, quasi in forza di una necessità, come se chi ne scrive si facesse a tratti spettatore delle loro scelte.
Alla sorpresa è seguita l’affezione, e il desiderio che la loro storia non finisse con il racconto che li aveva visti protagonisti ma proseguisse, rimanesse in qualche modo aperta. Non solo: si è aggiunto anche il desiderio che non si disperdessero, e che, come questo libro li aveva riuniti, la narrazione potesse creare per loro anche un luogo nel quale fosse loro possibile conoscersi, consolarsi reciprocamente di quanto loro accaduto.
È così che, quando il lavoro di scrittura poteva sembrare concluso, sono nati il cortile e la casa che compaiono nelle prime pagine e nelle ultime. Non sappiamo come è nata la piccola comunità che ci vive, né se resterà unita. Quel che conta è che un’altra storia, Cortile, divisa com’è in due parti che racchiudono i cinque racconti, ci assicuri che la vicenda dei nostri personaggi è continuata e continuerà, mantenendo il segno che l’ha fin dall’inizio connotata: il segno che imprime nelle vite il rapporto coi fratelli. È questo il tema che unisce questi racconti: il rapporto tra fratelli, quella sorta di palestra della socialità a venire che si offre sin dalla prima infanzia alla maggior parte delle persone e lascia tracce spesso indelebili nel loro modo di instaurare in seguito le relazioni con gli altri, di individuarvi una fonte essenziale o invece un ostacolo perturbante sul cammino che costruire se stessi e la propria vita impone.


Il testo può essere scaricato gratuitamente, ma non modificato né riprodotto per usi diversi dalla diffusione entro una cerchia di lettori. Nel caso lo si voglia utilizzare per altri scopi si prega di contattare l’indirizzo info@secondorizzonte.it

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Quelli che seguono sono brani tratti da alcuni dei racconti

Da Viaggio al Marocco

(…) lì, sulla terrazza, c’era la pecora. Anzi, un montone, adulto. Aveva le zampe legate, era disteso su un fianco.
Il vecchio l’ha sollevato tirandolo su con una corda che finiva con un uncino. L’ha messo a testa in giù.
Noi eravamo col cuore in gola a vedere quel montone che gridava i suoi belati e guardava per terra. Sulla terrazza, in pieno sole.
Zac. Un colpo solo. Aveva tirato fuori un coltello lungo, da una tasca dei pantaloni, larghi, stretti alle caviglie, e gli aveva dato un colpo di taglio alla gola, senza metterci forza, sembrava.
Un lungo sospiro. Invece dei belati un lungo sospiro. E gli occhi adesso guardavano il fiume di sangue che sgorgava e inondava il terrazzo, perché la canalina che girava intorno alla terrazza non bastava a raccoglierlo. Un rivolo è sceso addirittura per le scale.
Poi il vecchio, con lo stesso coltello ha cominciato a togliere la pelle all’animale.
(…) Insomma, non so come dirti: non mi sembrava una morte violenta, ci credi? (…) Il montone non si era disperato. Non aveva fatto a tempo, dici tu. Certo. Però non era solo questo. Era morto con dignità, senza avvilirsi. Ecco. Senza doversi avvilire. E disperare. Io la carne la mangerò sempre, mi sa… anche tu? Appunto, non è questione di essere vegetariani. Però vederlo l’animale, vedere come succede che diventa… carne. Hai capito?
Be’ insomma, il papà dei ragazzi e il montone a me non sembravano la vittima e il boia. Mi sembravano due vecchi, che sanno tutt’e due come va a finire.

Da Gli artisti 

Il rumore delle barre incandescenti che escono dal forno, e come animali ancora vivi si lasciano guidare fino al treno di laminazione, e dopo non sono più la stessa cosa. Fredde, pesanti, rigide.
Adesso, da casa, qui in cima al paese, le sento, nel buio. La fabbrica è là in fondo. Non smette mai.
Io le ho viste. So che erano già morte anche quando si muovevano. Ero io a farle muovere. Schiacciavo il bottone che faceva girare i rulli, e loro obbedivano, lente, come animali che si trascinano perché li pungoli. Ma sono già andati.
Poi però sono venuto via dal laminatoio. Ero ancora vivo, io.
I suoni sono sempre quelli. Anche di giorno. Magari passano ore che ti sembra di non sentirli. Poi ti capita di sentirli di nuovo, improvvisamente, ma te ne dimentichi subito, di giorno. Invece la notte ti stanno addosso.
Succedeva così anche allora.
Tutto, qui, è rimasto come prima.
Anche se io sono stato via. Anni. Per anni sono andato e tornato.
In Arabia, nei pozzi di petrolio. A dormire con gente che non si capiva cosa diceva. Ubriachi. Che sognavano e gridavano nel sonno, e il giorno dopo gridavano ancora, anche da svegli, e non si capiva cosa dicevano.
E poi in Australia. A lavorare nelle vigne, come queste che ci sono intorno al paese. E le donne, che venivano da me e poi andavano, senza chiedere niente.
E intanto lui, Diego, era qui. Era rimasto qui, lui. L’artista, lo chiamavano tutti. Anche quelli di fuori: quando uno arrivava in paese chiedeva dove sta l’artista? L’artista? gli rispondevano: su, in cima al paese. E così anch’io adesso, e gli altri della famiglia, ci chiamano gli artisti. Anche se solo io faccio ancora delle cose, come faceva Diego.
Non capita più che chiedano dove sta l’artista. Però siamo gli artisti: tutte le famiglie hanno un soprannome qui. Questo dev’essere l’ultimo che è saltato fuori.

Da Hans Tischler. Un idillio

Stacca dal filo al quale è appeso il violino che ha finito due mesi fa. È quasi sicuro che lo venderà. Andrà in Austria, la violinista di Vienna gli ha scritto e lo aspetta in settembre. Gli piace prendere il treno, da solo, e andare in Austria, o in Germania, a Heidelberg, a vendere cose che ha fabbricato lui. Se ne sta per ore, là, ad ascoltare i suoi clienti provare, accennare sui suoi strumenti arie che conosce da sempre, che anche lui ha suonato, quando studiava musica.
(…) Ma non aveva imparato a suonare bene, non aveva mai pensato di fare né il maestro né il concertista, niente di quello che suo padre e gli altri si aspettavano, pretendevano anzi, che lui diventasse. Perché a lui bastava l’emozione di ritrovare sulle corde del violino l’aria che già conosceva. Riconoscere, fatto dalle sue mani, il motivo che aveva sentito in qualche concerto e intuito nella pagina di note sul leggio era tutto quello che voleva. Non sentiva la necessità di iniziare, da lì, a provare e riprovare per poi far sentire ad altri. C’erano altri ancora che sapevano suonare benissimo: perché cercare di raggiungerli? per far contento suo padre? Ma in fondo, bisognava proprio suonarlo il violino? Prenderlo in mano, piuttosto, soppesarlo, sentirne il profumo, saggiarne appena il suono pizzicando le corde, questo sì.

Da Le cose

L’allodola non si vede, è alta, oltre il velo di vapori che il sole sta facendo alzare da terra.
Il suo trillo riempie lo spazio e sembra l’unico colore nel grigio della strada sterrata, tutta pozzanghere, nel grigio delle erbacce che rendono quasi invisibile la scarpata che corre lungo la strada, nel grigio delle stoppie e della terra non coltivata del campo che si allarga sotto la scarpata, grigia dei calcinacci e dei pezzi di cemento che qualcuno ha scaricato lì.
Non è un posto dove stare quello. Ma l’allodola si è messa proprio lì sopra, e trilla come se quel che si vede di lassù fosse vivo e abitato.
È continuo ma non è un suono sempre uguale, sembra un chiacchiericcio, come se l’allodola modulasse un racconto, senza aver bisogno che qualcuno la ascolti.
Adesso però un suono diverso si è per un momento sovrapposto al trillo. Sembrava un suono umano, ma quando si ripete si sente che è l’uggiolare di un cane, che a tratti si rompe in un abbaiare che non ha nulla di aggressivo. Sembra un abbaiare per gioco. Festoso, un po’ come il trillo dell’allodola.
Sì, è un cagnolino. La macchia bianca e nera del suo corpo avanza a zig zag al bordo della strada, corre avanti, ritorna, si ferma a capire un odore, lo segna con poche gocce, riparte. Uggiola mentre avanza, abbaia quando torna verso l’altra macchia di colore che comincia a intravedersi. Grande, quella: rossa, blu, verde, oro. Avanza con regolarità. E accanto a lei un’altra macchia colorata, molto più piccola, si muove invece a saltelli. È da quella che proviene un terzo suono, sul quale non ci possono essere dubbi: è la voce di un bambino. Ripete sempre la stessa parola, incomprensibile. Solo quando la distanza si è ridotta si sente che la parolina che il bambino grida ha come un’eco, flebile. Il scè scè del bambino viene ripetuto da un’altra vocina, più sottile, incerta.
Ecco, adesso tutto ha preso un contorno: è una donna nera che incede nel suo abito da festa, preceduta dal cagnolino, con un bambino per mano e una bimbetta molto piccola avvolta in uno scialle che la tiene stretta, come in uno zaino, sulla sua schiena.
Il bambino non cessa di indicare il cane e chiamarlo: scè scè scè scè. La piccola ha gli occhi fissi nella stessa direzione. Anche lei guarda, sopra la spalla della mamma, scè, il cane, una novità: si è accodato a loro tre quella stessa mattina, poco dopo che si erano messi in cammino.

Da Cortile

Caro Leo,
è ancora buio ma sono sveglia e mi è venuta voglia di scriverti, di raccontarti. Niente di speciale: solo quello che c’è qui.
Non è l’insonnia dei pensieri del giorno che si mettono in mezzo, non è l’insonnia di quando si ha sonno. È quel non dormire che è un regalo, come dici tu. Che ti fa pensare tranquilla a quello che fai e a quello che farai. È un regalo perché ti fa sentire quello che hai. E poi c’è fresco ma si dorme ancora con la finestra aperta. Ho appoggiato il foglio sul davanzale e ti scrivo guardando il cielo, oltre i muri del condominio, in alto, e il cortile, giù sotto. Adesso è silenzioso. Lo è sempre di notte, quando non ci sono più televisioni accese. Ma forse adesso lo sento di più questo silenzio perché di giorno, da un po’ di tempo, invece è pieno delle voci, dei pianterelli, delle risatine, dei richiami di Diao e di Anta, i bambini di Binta, la donna senegalese che è venuta a stare qui. Te ne ho già parlato, ricordi?
Silenzioso del tutto, però, no: mi è arrivato un guaito e un raspare. È il cagnolino dei bambini, Mamadou, che gratta sulla porta del laboratorio di Gabriela. Siamo state lì fino a tardi, ieri sera, e forse lui si è dimenticato che poi siamo salite a dormire. Oppure se lo ricorda ma vorrebbe che fossimo ancora lì e è sceso a cercarci, per stare con noi. Gli lasciano la porta aperta, in modo che lui possa andare dalla stanza dove Binta dorme coi suoi bambini al cortile, quando vuole.
(…)
Si è rifatto silenzio. Il cielo ha cominciato a cambiare colore. No, forse è solo una mia impressione perché ho sentito una moto passare. Ma è ancora notte. Mi piace non sapere che ore sono.
Ecco, adesso una vocina, un piccolo lamento è rimasto sospeso per un attimo nell’aria del cortile. È Anta che sogna. Dalla loro finestra sembra che venga ancora il profumo del riso speziato di ieri sera. Ma forse anche questa è solo un’impressione. C’è invece quell’odore scuro, umido, fresco che si sente solo la notte. È come un’ombra. È come se la notte avesse un suo odore, fatto di tutti gli odori che arrivano di giorno forse.

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