Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)
“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale: “Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di scorgere in minister anche se è ormai una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo, nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre più lasciato il posto agli “influencers, quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.
No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e scuotere la routine che ci avvolge”.
Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono questi gli scopi che il maestro Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare. Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”. Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui stesso parte del problema, non è sincero”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.