Aller, aller, mon petit, su con la vita. Spostasti un poco, ancora un paio di centimetri a droit, così, avanti, ora un petit peu a gauche. C’est bon.
Ditemi voi cosa mi tocca fare per quell’imberbe sulla soglia dell’adolescenza, con la bocca ancora sporca di latte e le ascelle che trasudano ormoni. Ecco, fermo lì. Voilà, les jeux sont fait. Finalmente abbiamo centrato il suo brufolo sulla mia macchiolina di ruggine, così il pivello non lo nota il foruncolo, che magari è capace di sentirsi svilito, sminuito nella virilità. L’adolescenza è proprio una stagione grama, si deve mordere chiunque si abbia vicino, anche se stessi, come cani in trappola. Gli arti si estendono, le spalle si disegnano, i nasi si allungano, le mandibole si squadrano. E quel odeur, che fetore di crescita che lo sento pure io che il naso non ce l’ho. Ma che fare?
Ehi mon enfant, ora te lo svelo io il trucco: a me gli occhi. Non conta tanto brufolo più o brufolo meno, è lo sguardo, mon amis, perso nel nulla, la fronte aggrottata e quell’espressione fra il tormentato e il misterioso…in italiano chiamasi bel tenebroso, appunto, qui, Ça va sans dire, fait tombé les femmes, come le mosche.
Non conta tanto quello che sei, non ti torturare, conta quello che sembri, che di maschi dallo sguardo alla Alen Delon con dentro il vuoto, je n’ai vu beaucoup, mais beaucoup.
Beh, bisogna dare una mano pure a lui e, finché si tratta di un brufoletto, ce la posso fare. Gioco un po’ con le mie imperfezioni e nascondo le prove del delitto.
Con sua sorella è più dura, c’est très difficile. Lei sono anni che si misura le tette, nella speranza che lievitino. Mi si para davanti a torace scoperto, senza pietà, senza attenzione alla mia sensibilità.
Che io sia di vetro o di carne, italiano o francese, les tettes sont toujours les tettes e, pure a me, un certo effetto lo fanno. E le sue non crescono proprio. Mi spiace poveretta, lei ce la mette tutta con gli impacchi caldo-umidi la sera, con le creme, ma niente, calma piatta. Glielo vorrei dire che non è quello che conta, anche se non guasta, che al giorno d’oggi c’è della biancheria che tira su e spinge verso in centro e fa di quel poco che hai un vero e proprio balcon, una balconata. Ma lei è proprio risentita, come fosse colpa mia, come se toccasse a me dispensare tette a destra e a manca. Se potessi, vuoi che non lo farei? Mi accontenterei anche solo di imbrogliarla un po’, di mostrarle quello che non c’è. Ma mica sono un mago.
La sera poi arriva l’homme, le marit, le père, le gros ventre: si sfila le scarpe, si toglie la giacca e la ripone sul servo muto. Poi è la volta della camicia, ed eccolo lì in canotta a righine, di profilo a richiamare la mia attenzione per misurargli la circonferenza della pancia. Raddrizza bene la schiena e prova a contrarre quel minimo strato di addominali mosci, poi si accarezza l’addome come per addomesticarlo, per convincerlo a ritrarsi almeno un poco e mi si mette di fronte. Quando è di faccia tira un sospiro di sollievo, perché la protuberanza sembra livellarsi, magari non proprio piatta, diciamo meno prominente. È ciò che gli basta per prepararsi un pirlo col Campari, e al diavolo la pancia.
E moi, io esulto: carboidrato santo subito, patatine, birra e rutto libero.
Lui si che ha capito come funziona la faccenda.
Sa femme, sua moglie invece, di fare la piega non ne vuole sentire parlare proprio. Mes amis, lei va dicendo che a una certa età gli specchi è meglio evitarli, ma è sempre qui a scocciarmi, a chiedere, a pungolarmi, a studiarsi le rughe, a misurarsi i fianchi o la circonferenza delle cosce, che sono sempre troppo tonde. S’è perfino comprata delle mutande rigide che le dovrebbero tirare su le natiche, fatte di una plastica che la fa sudare anche da ferma. Pauvre idiot, si crede che a sudare si dimagrisce!
Si mette di faccia e poi di profilo e mi guarda, come mi supplicasse. E io cedo per quello che posso, provo in ogni modo a distendermi nel senso della lunghezza, estendendo anche lei con l’inganno. Ma appena si avvicina di più, Ça va sans dire, l’effetto ottico svanisce e tutti i miei sforzi vanno a ramengo. Spaccarmi però non mi spacca, perché non sarà superstiziosa, ma sette anni di disgrazie non sono poche.
Quando si vuole misurare gli eccessi posteriori, io non le basto più. Apre l’anta dell’armadio dove è incastrato mio cugino più giovane e comincia la fatica di orientarla per vedersi dietro. Io e mio cugino nell’armoir abbiamo così l’occasione di rivederci, di scambiarci due battute, di tirarci su il morale a vicenda. E ce la ridiamo, mon Dieu de la France, come ce la ridiamo, quando la cicciona cerca d’assottigliarsi, quando implora lui di rifletterla sulla superficie mia con un minimo di clemenza. A lui la parte del poliziotto buono, ma a me quella del cattivo, perché è in me che si guarda e, purtroppo, si vede. Accidenti a lei.
È allora che parte la litania degli insulti alla menopausa, delle accuse agli ormoni, alla ritenzione idrica. E, a quel punto, la mia finezza, ma elegance, ma grandeur, s’envole, s’invola, e la mia italianità mi possiede.
Aho lardona, ma che te lo dico a fare? è inutile che cerchi in me Brigitte Bardot, molla il colpo, che la guerra con l’adipe l’hai persa. Passa al piano b, che so giocati il cervello, lo spirito, le equazioni di terzo grado.
Ma poi, nella mia immensa benevolenza, mi mordo la lingua, agguanto l’inclinazione della luce che entra dalla finestra e la concentro sulle sue caviglie, che non sono ancora sfatte. Quelle beauté, che caviglie sottili – le sussurro docilmente. Alla fine conclude che, Ça va sans dir, quello non è grasso, è solo gonfiore e spalma un paio di centimetri di nutella su una fetta di pane.
È un lungo addestramento il mio, mi alleno alla vaghezza, alla penuria di particolari, alla proiezione di ombre.
Quando lo sguardo di qualcuno si posa su di me, non mi illudo certo che cerchi me, cerca sempre se stesso, la propria immagine, a giorni la propria identità, raramente la propria anima. E più si guardano da vicino e meno si ritrovano. Io glielo vorrei dire che si comincia a comprendere, quando ci si allontana da se stessi. Ma poi mi prende la pena per loro, per la loro insipienza; allora li scruto e svelto svelto, cerco il desiderio dietro il loro sguardo: vuole vedere quello che crede di essere? Quello che vorrebbe essere? Quello che vorrebbe che si credesse sia?
Vita dura per uno specchio, e io sono pure antico, barocco francese, notare i miei riccioli dorati, un’imitazione, Ça va sans dir. E di fatiche me n’è toccate non poche.
Forse è andata peggio a quel mio antenato tedesco che, quegli sprovveduti dei Grimm, fratelli famosi, hanno messo nelle mani di una megera che voleva essere la più bella. E non le andava giù la storia dell’invecchiare, e se la prendeva con il mio prozio, quasi fosse lui a muovere la manovella che aziona il tempo.
Di storie poi, ve ne potrei raccontare per anni, da farvi sbellicare: dal trisnonno che prova il cappello da bersagliere con sguardo altero, alla moglie che si stringe in un corsetto fino all’apnea, al giovinotto, pistola in mano, che simula un duello, alla piccolina che ninna la bambola con occhio sognante, alla fanciulla che si allena a lasciar cadere un fazzoletto ammiccando. E potrei continuare.
Mi sforzo, giorno dopo giorno, di farli contenti, li guardo mettersi in posa davanti a me, cerco di rimandargli un’immagine che in qualche modo li soddisfi, oppure provo a fabbricargli un altro corpo all’istante, convincendoli ad indugiare con lo sguardo sul più, piuttosto che sul meno. Interrogo le emozioni, mi faccio psicologo e se scopro che ciò che vedono li fa soffrire, mes amis, quelle douleur, mi prende un’agitazione interiore, un lavorio di sensi di colpa da non credere.
No signori miei, non ve la prendete con me, non illudetevi che io sia il ritratto di Dorian Gray che si porta via la vostra monnezza; sono solo un muto testimone del tempo che passa e non sarò certo io a fermarlo. Io rimando immagini inerti, certifico, confermo, smentisco. Sono un notaio, a esagerare un ufficiale giudiziario.
Io più che vetro non sono, io rifletto, ma sta a voi riflettere, aprire una finestra su voi stessi, accedere a cosa sta dietro, penetrare la profondità, abbandonare l’illusione di eternità, di immutabilità, questo, signori miei non sta a me.
Non che non lo farei per voi. Negli anni mi sono pure affezionato al genere umano, soprattutto quando prende la via nostalgica del ricordo, quando si lascia aggredire dall’irruzione del passato.
Allora vorrei essere in grado d’ingrandirgli il volto per farglielo vedere meglio, per dirglielo quanto somigliano aux enfants, ai piccini che sono stati, quanta verità dell’infanzia ancora li impronta. Perché io ce l’ho la certezza che quei bambini ancora mi stanno scrutando, cercando in me il profilo di una regina, i muscoli di un futuro guerriero. Io ce l’ho l’attitudine a cogliere la vibrazione della realtà dietro il belletto, il groviglio di conflitti, le rimozioni. È che a giorni devo cedere all’inganno, perché non si può sempre dire tutto, bisogna essere discreti, distorcere le cose magari solo un pochino, snellire, per non turbare troppo.
Ma è la madame, la vecchietta che mi manda in crisi e mi commuove. Con lei non riesco proprio a mantenere le distanze. È ancora bella, di una bellezza passata ma non trascorsa, direbbe l’Alessandro d’Italie, il Manzoni, Ça va sans dir.
Lei non viene a chiedermi di renderle la giovinezza, lei lo sa che il bello prescinde dal tempo. Lei studia l’abisso, l’ombra della morte dietro di sé.
Allora io mi prendo paura, l’accarezzo, le rimando il passato, le rovescio il tempo addosso e lei, mon Dieu, lei ci casca. Ripercorre tre quarti di secolo indossando un cappellino con la veletta, cerca un ricordo in un paio di guanti estivi, un amore in un bottone di madreperla, un gesto perfetto in un petalo di rosa. A giorni passano ore in mia compagnia, lei e son chat, il gatto. Si scrutano, s’indagano: una si riconosce nel visino della mademoiselle che è stata e si sorride, l’altro, le chat, non si riconosce proprio, rizza il pelo e si fa la gobba Ça va sans dir.