Massimo Mantellini, Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020 (pp. 140, euro 12)
Dieci “oggetti”. In realtà, dieci “cose”. Perché – lo spiegava bene Remo Bodei, citato dallo stesso Mantellini, in La vita delle cose (Laterza 2009) – “il significato di cosa è più ampio di quello di oggetto (…). Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi delle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio”. Di qui il “valore affettivo” di molte delle cose che abbiamo in casa, il nostro non sapercene disfare. Come quando si deve affrontare quel lavoro inquietante – di più: perturbante – che non si vorrebbe mai dover fare e invece tocca a un certo punto più o meno a tutti: svuotare la casa dei genitori che non ci sono più. È allora che ci si rende conto che “Le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento. Gli oggetti che a lungo ci hanno fatto compagnia sono fedeli, nel loro modo modesto e leale”: parole di Lydia Flem, autrice di un libro che può tornar utile, al momento buono (Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto 2005). Senza contare che a qualcuno può capitare di dover svuotare la propria, di casa: vedi il protagonista del recente Le cose da salvare di Ilaria Rossetti (Neri Pozza 2020), che, crollato il ponte – quello di Genova – si trova a dover scegliere che cosa portare con sé, ma non ce la fa, perché “Ci sono troppe cose da salvare”: “È assurdo quanta vita c’è nelle nostre stanze”.
Ma torniamo a Mantellini e ai suoi oggetti. Anzi, alle sue cose: dieci. Anzi, otto, perché le ultime due sono il silenzio e il cielo, immateriali, di tutti e di nessuno. Otto più una però, perché fra quelli morti c’è anche “uno splendido oggetto vivo: il libro”.
E dunque: le mappe, le cartine geografiche che si tengono, si tenevano, in macchina, il telefono e la macchina fotografica, la penna e la lettera, e poi i giornali e i dischi, e i fili (quelli del telefono per esempio, o della radio, resi inutili dal cordless e dal wifi).
Un’operazione non inedita. Ci ha provato anche Francesco Guccini, pochi anni fa, con il suo Dizionario delle cose perdute (Mondadori 2012), ma Mantellini va più in là. Non si limita a evocare esperienze e ricordi in chi – come si dice – non è più giovane. Sempre sulla scia di Bodei, adotta la categoria di “oggetti orfani”, quegli oggetti, o meglio: quelle cose che “ci sopravvivono, certo, ma allo stesso tempo muoiono con noi, se quei legami [che abbiano stabilito con esse], chi verrà dopo di noi, non saprà più riconoscere”. Un esempio per tutti: il telefono di bachelite, nero, con la rotella per fare il numero. di quelli attaccati al muro magari, nel corridoio. I “nostri figli”, se mai gli capita di vederne, “Li guardano e non capiscono. Si domandano che bisogno ci (fosse) di inchiodarli a quel modo, si chiedono per quale motivo, per telefonare, (fosse) necessario rimanere in piedi accanto a un muro. Sono domande quasi retoriche per noi che abbiamo vissuto il passaggio fra la telefonia fissa e quella mobile ma sono quesiti autentici”. Se poi sono bambini nati dopo il 2000 a contemplare un vecchio apparecchio telefonico – esperimento davvero effettuato – ne uscirà un giudizio candido e sorprendente (per noi): “È bello, ma è complicato”. Noi che di fronte a uno smartphone, solo ieri abbiamo detto qualcosa di molto simile.
Ma questo libro non è un saggio di quelli che è meglio non leggere a letto o in poltrona. A garantirne una lettura fluida, coinvolta, a tratti divertita sono due cose: da un lato, il continuo rimando all’esperienza personale (il papà che non voleva che i bambini spiegazzassero la cartina autostradale; l’involuzione della propria grafia per effetto dell’uso della tastiera al posto della scrittura a mano; il non saper più trovare in casa carta di giornale per accendere il fuoco essendo che di giornali di carta se ne legge sempre meno). Dall’altro lato, il riproporsi in ognuno dei capitoli di un’identica griglia di ordinamento degli argomenti, in modo tale che la lettura ne esce facilitata e i nessi fra un capitolo e l’altro (fra una cosa e l’altra) sembrano naturali: dopo lo spunto autobiografico che dà amichevolmente inizio al discorso, ecco allora il riferimento alle circostanze che hanno decretato la morte dell’oggetto in questione, poi qualche cenno all’evoluzione che ne ha preso avvio, per giungere all’oggi, e magari traguardare sul futuro prossimo. Non senza fare un bilancio dei guadagni ma anche delle perdite, sempre con estremo equilibrio, lontano dalle tentazioni paralizzanti della nostalgia-rimpianto, ma anche non tacendo quesiti sostanziali: se le cose racchiudono tanto di noi, la scomparsa di alcune di esse non comporta anche la perdita di una parte di noi? Oppure: che cosa è cambiato, che cosa sta cambiando in un mondo in cui le cose, che una volta ci sopravvivevano, adesso, in molti casi, muoiono prima di noi (non per usura, ma per obsolescenza programmata, tecnica o simbolica che sia) e dunque sempre meno possiamo investire culturalmente e affettivamente su di esse? Perché, se tendessimo a dimenticarlo, Calvino ce lo ricorda: “si è quel che non si butta via”.
(Un’avvertenza conclusiva: l’autore non è un umanista incline a vedere la fine del mondo in ogni innovazione: è “uno dei maggiori esperti della rete internet italiana” – leggiamo in quarta di copertina – e “ha iniziato a scrivere di nuove tecnologie a metà degli anni Novanta”).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.