Paolo Malaguti, Se l’acqua ride, Einaudi 2020 (pp. 189, euro 18,50)
Metà anni Sessanta; un paese, Battaglia, della Bassa Padovana con la sua rete di fiumi (Brenta, Bacchiglione) e canali che ne derivano: questo lo sfondo su cui si svolge la vicenda di Ganbeto, nipote e figlio di barcari. Il nonno Caronte è proprietario di un burcio, la Teresina, uno dei tanti barconi da carico che navigano nella zona spingendosi fino a Chioggia e Pellestrina, e a Venezia qualche volta.
Una vicenda in cui campeggia, oltre a quella del protagonista, la figura del paròn del burcio, conoscitore consumato del suo mestiere, ruvido e intuitivo, sprezzante e generoso: chi ha visto in televisione Andrea Pennacchi, detto il Pojana, non può che dare il suo volto e la sua voce al vecchio Caronte.
Desideroso di lasciare una scuola dove si parla una lingua lontana da quella di tutti i giorni e si insegnano cose astratte e inutili, Ganbeto – magrino e curvo come il ferro a U che serve a unire la catena all’ancora – aspira a fare il barcaro, come il nonno e il padre, e il suo sogno si avvererà, per due estati, quando però il tempo dei burci è ormai alla fine, persino di quelli che non usano più la vela (come la Teresina) ma il motore e sono tuttavia insidiati dalla concorrenza che sempre più esercitano i camion.
Con una lingua densa di termini dialettali (opportuno il glossario in appendice), si evocano atmosfere alla Huckleberry Finn, ma che richiamano, sempre con un sorriso partecipe – color Amarcord, a volte –, anche il Carlino di Ippolito Nievo quando Ganbeto vede per la prima volta il mare, oltre la laguna.
Con i primi rudimenti – badare ad esempio se l’acqua ride, gorgoglia cioè, perché lì il fondo è pericolosamente basso – il ragazzo conosce i primi turbamenti sessuali, il fascino misterioso cui allude un parola altrettanto enigmatica, “formicazione”, e si innamora di Lucia, la giovane di bottega incontrata a Pellestrina, in ciò inaspettatamente incoraggiato dal nonno del quale, dopo che il padre ha dovuto rassegnarsi a entrare alla “Fabrica”, da morè (mozzo) che era è diventato marinèr (aiutante in seconda, si direbbe se il burcio fosse una nave).
Ma il tempo dei barcari, si diceva, è giunto al tramonto e la fierezza di Caronte si farà puntiglio, attaccamento ostinato a una cultura dissolta: “Noialtri giriamo il mondo, siamo foresti dapartutto, l’unica nostra casa l’è la barca”, dirà il vecchio fino all’ultimo, fino all’”acqua granda” del novembre ’66 in cui scomparirà. Mentre lui, Ganbeto, ormai dismesso il suo nome da “bocia”, si rassegnerà a un lavoro sedentario, in un’officina, consolando con la tanto desiderata Vespa e un nuovo amore il suo cuore di barcaro. Un romanzo di formazione sempre lieve nei toni, che rifuggono dall’epica ma non da un rimpianto sincero, a tratti struggente.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.