Dalla Guerra del Golfo, all’inizio degli anni ’90, viviamo in un’epoca di nuovo orientata verso la guerra, e dopo l’11 settembre la guerra si è riappropriata di ciò che la rende attraente agli occhi dei giovani, uomini e donne: l’elemento eroico.
Sono, queste, osservazioni che esprimevo nel 2001, che ho riletto oggi, che potrei avrei scritto ieri e perciò mi pare abbia senso riproporre (anche alla luce delle reazioni seguite alla pubblicazione di articoli come quelli di Barbara Spinelli sul “Fatto Quotidiano” dello scorso 26 febbraio, e di Tomaso Montanari su “Micromega”.
Quando scoppia una guerra ci parliamo di più, ma paradossalmente non riusciamo a comunicare di più: la lingua della guerra crea un frastuono che rende difficile farlo.
Si crea un’illusoria comunità dialogante.
E a soffrire è prima di tutto il parlare; ci accorgiamo che discorriamo male, rissosamente, scopriamo che le nostre parole, se non sono parole riconoscibili in quelle degli schieramenti che si sono andati formando, non hanno alcuna possibilità di essere recepite, sono rese del tutto superflue.
E’ in scacco la fiducia nel potere che le parole hanno di creare legami sociali, di resistere alle chiusure create dalla guerra. Soprattutto, è messo in questione il senso del parlare perché la guerra costruisce una sua lingua insensibile, corazzata, armata di ragioni e ragionamenti.
Continuare a parlarci, a parlare della guerra sottraendoci all’ordine del discorso definito dalla guerra, richiede un atto di coraggio.
Nel momento in cui viene decisa una guerra si impone il dolore di sopportare la violenza della lingua della guerra, di reggere l’irritazione provocata dalla menzogna, dall’esibizione del militarismo nei discorsi e nei comportamenti. E’ la difficoltà di continuare a parlare con amici e amiche, con persone che ci sono care, nell’accorgerci con quale rapidità la mente viene assediata dalle costruzioni linguistiche che predispongono a giustificarla guerra. E’ il dispiacere che avvertiamo nel sentirci separati dagli altri, è la tristezza del non riuscire a far parlare la verità della proprio storia.
Quando la guerra ritrova la sua legittimazione e la società viene orientata in questo senso, anche la lingua che riempie la scena pubblica diviene una lingua di guerra.
Non si tratta di contendersi la stessa scena o di contrattare con il potere spazi residuali in questa o quella istituzione, in questo o quel canale televisivo.
Anche la lingua della critica, della controinformazione, sono lingue deboli rispetto alla lingua della guerra. Sebbene possano offrire opportune informazioni, queste due lingue non solo non hanno la forza di modificare l’orientamento del nostro sguardo, al contrario lo tengono fermamente orientato verso la guerra, che continua ad occupare il campo visivo, lo spazio mentale…
Si tratta piuttosto di creare un’altra scena. Dar vita ad altri contesti e contemporaneamente far posto ad una lingua che sappia parlare con la bellezza e la pazienza della lingua letteraria.
Lo spazio per una lingua differente allora si fa; ogni volta che parlando possiamo toglierci le maschere e le corazze, per dar voce soprattutto ai sentimenti difficili che la violenza genera; la paura, la rabbia, il risentimento… Nel fidarci delle parole che ci scambiamo con amore e passione riusciamo ad attraversarli e ad andare oltre.
grazie di queste parole Vorrei dire che sempre più è vero che la guerra inizia prima dell’uso delle armi inizia con le parole Le parole che preparano alla guerra che creano e orientano opinioni che poi hanno gioco facile nel sostegno di uno o dell’altro contendente e, chiedendoci lo schieramento,
zittiscono il pensiero e le parole di umana sofferenza che la violenza genera Cosi succede che la sofferenza stessa , la rabbia e il risentimento diventano essi stessi elementi giustificanti della guerra
aurora