Di un amministratore di condominio non hanno mai pensato di avere bisogno. Tre famiglie in quel palazzo, tutti proprietari, e lei, la sola affittuaria. Si regolano fra loro senza bisogno di formalizzare. Marco Frigerio tiene i conti, è preciso, sicuramente onesto. Non si fa retribuire per quel lavoro, lo fa e basta. Così, la malattia del glicine viene affrontata la prima volta sulle scale, fra il primo e il secondo piano, perché assemblee condominiali non se ne sono mai fatte.
È un glicine storico, più di duecento anni di vita, che orna il palazzo settecentesco all’incrocio fra via Cairoli e via Bassiche. Tre piani più una piccionaia, un enorme terrazzo al primo piano, un giardino d’inverno al secondo. Il glicine sovrasta, o meglio sovrastava, tutta l’area del terrazzo, una piazza d’armi di oltre centocinquanta metri quadrati, e la ricopriva con foglie e fiori che attiravano l’attenzione dei passanti al tempo della fioritura. Spesso qualcuno, all’angolo opposto dell’incrocio, lo rimirava o lo fotografava. Emanava un profumo che fluiva in alto, fino a quella che chiamano “la piccionaia”, dove abita Teresa, la più giovane del palazzo.
Solo dei giovani possono vivere in questo appartamento microscopico e alpinistico, aveva pensato Teresa quando l’avevano visitato. Al terzo piano, una porta dà accesso, attraverso una scala che dire ripida non rende l’idea, a un minuscolo ingresso che funge anche da guardaroba, affacciato su un altrettanto minuscola “tasca”, cioè un balconcino che guarda i tetti del centro storico; un’altra rampa verticale apre a una cucina infinitesimale e poi un ultimo sforzo su gradini stretti e scoscesi per raggiungere l’unica camera. Luminoso, vista fantastica, ma impegnativo. Lei e Nicola se ne erano innamorati. Poi, le cose fra loro non avevano preso il verso giusto e ora Teresa ci vive sola.
– No, disperata no, sai come sono fatta – dice della fine della loro storia al telefono a un’amica – forse solo un po’ triste, ma per me gli uominise ci sono bene, se non ci sono sopravvivo comunque, qui nella mia torre da regina.
Il tronco nodoso del vecchio glicine sale sghembo dal cortile, poi obliqua per imboccare l’enorme terrazzo del primo piano attraverso un’apertura quadrata, una nicchia che pare i muri abbiamo scavato per accoglierlo.
– Qualcosa si deve fare – dice Giovanna sul pianerottolo ad Afra – provare a salvarlo, farlo potare, non da un giardiniere qualunque, che magari lo tratta brutalmente e lo uccide, dobbiamo trovare un esperto, un dottore di piante maestose.
– Uno che ci sappia fare – ribatte Afra – magari Pietro, nel suo giro, un aggancio lo trova.
Ma chi ci crede? pensa l’altra, giusto Afra che neanche si accorge di quanto suo marito Pietro sia sbruffone, sempre a pavoneggiarsi con qualcuna delle sue moto di grossa cilindrata o sulla sua macchina d’epoca. Certo che, per merito della sua agenzia immobiliare, il danaro non gli difetta.
Sulla coppia del primo piano non si può fare affidamento: marito e moglie quasi ottantenni, gentili, educati, ma estremamente riservati. E poi l’età impone che siano gli altri a farsi carico del problema.
Il glicine intanto continua a deperire: rami secchi e spogli penzolano come arti fratturati, di gemme neanche l’ombra. Teresa lo osserva preoccupata. Era stata tentata di farne parola con Marco, anche se lei voce in capitolo non ne ha, ma da tempo non lo incontra sulle scale e per suonare il campanello non ha abbastanza confidenza. Sua moglie sembra addirittura scomparsa. Lavora troppo, pensa la ragazza. Dirige il settore Private Banking di un’importante banca online, lanciata verso i vertici della carriera.
Alla fine, non proprio un’assemblea di condominio con ordine del giorno, verbale e gli altri sacri crismi, ma diciamo un incontro c’è stato, al terzo piano, nell’appartamento di Giovanna e Marco. Ed è stata convocata anche Teresa, per educazione. Giovanna non c’è. Sarà in banca, hanno pensato tutti.
Poi è venuto un vero dottore delle piante con altri tre a mozzare rami senza pietà. Teresa alla finestra della piccionaia ha assistito allo scempio, che in realtà era la terapia: lo stavano potando quasi del tutto e pareva di sentirlo gemere sommessamente, a tratti proprio disperarsi. Spogliato dei rami fino al punto in cui il tronco emerge dal cortile per distendersi sul terrazzo. Gli è rimasto il busto, o meglio ciò che potrebbe essere un busto senza arti se si trattasse di un umano.
Hanno parcheggiato oltre l’incrocio, proprio di fronte a casa: è un evento un posto libero davanti al portone in centro storico. Giovanna, che sempre in ritardo di solito si spara fuori dall’auto come un proiettile, ne esce lenta, cauta, aggrappata alla portiera. Attraversa la strada reggendosi al marito, incerta come una vecchia. Poi, alza lo sguardo e lo vede: niente fiori, niente foglioline lanceolate, neanche più un ramo.
Lo sapevo, Marco me l’aveva detto che sarebbero intervenuti. Io e il glicine, entrambi operati, che coincidenza. In cortile rami accatastati, freschi d’amputazione, in attesa di sepoltura.
La vista di quel terrazzo spoglio, privo del suo tetto verde profumato, le apre una crepa dentro. Ha retto così bene in ospedale e ora rischia di crollare per un glicine mutilato. Al pensiero le viene quasi da ridere: soffrire per rami e foglie, per grappoli viola che ondeggiano al vento, roba da quindicenni innamorate. Eppure quel solco silenziosamente s’approfondisce, scava. Goccioline salate ondeggiano nei suoi occhi per tracimarne, mentre lei cerca di trattenerle, di mandarle indietro. Non ha ancora pianto dall’intervento, non è questo né il momento né il luogo.
A letto non vuole stare, la postura della paziente non le si addice, pazienza non ne ha mai avuta, sempre frenetica, sempre inquieta, minuti contingentati al lavoro e anche a casa.
Apre la finestra della cucina: più sotto tre colonne di pietra sagomate sostengono travi e fili metallici, antichi supporti per i rami che flessibili gli si aggrovigliavano intorno per poi arrampicarsi in alto, fino alle finestre del terzo piano. Ora, nient’altro se non pietra e ferro. Nuda realtà. Una nuda realtà che è ora di guardare in faccia. Ma guardare la realtà comporta reggerla e, a volte, per reggerla è necessario evitare di guardarla. Certo che a lei la morte pare proprio un’offesa personale. Ci vuole un caffè, il caffè dell’ospedale fa veramente schifo. Con la tazzina in mano torna alla finestra: che primavera sarà senza glicine? Osserva il rampicante ridotto a un tronco spoglio che, coraggiosamente, dal cortile emerge ancora fino al terrazzo. Monco, privo di vigore, orfano di bellezza, ma vivo. Ricorda le foglie, riunite in mazzetti, ricoperte a marzo di una peluria setosa che poi si perdeva, i grappoli di fiori violetti, poi i frutti che sembravano legumi. È in quel preciso istante che decide, carezzando con gli occhi il tronco tortuoso della pianta: un gesto di solidarietà, di condivisione. Davanti allo specchio del bagno impugna le forbici, quelle da cucina, e comincia a tagliare. Ciocche di ricci riempiono poco per volta il lavandino. Li osserva cadere soffici come le foglie secche del glicine, posarsi sulla ceramica bianca lievi, quasi dispiaciuti.
– Sarebbe stato il vostro destino comunque, al massimo fra poche settimane – dice ad alta voce. Poi afferra decisa il rasoio elettrico del marito e completa l’opera. Un viso scarno e disadorno le sorride incerto dallo specchio. Missione compiuta, pensa osservandosi, e comincia a ridere. Ride di gusto, ride, ride così forte che lacrime copiose cominciano a solcarle le guance. E finalmente, sospinta da un’ondata di tristezza arrivata da chissà dove, piange.
Come ho potuto non accorgermene, si chiede chiudendo la porta, non c’ho proprio testa in questi giorni. Teresa era passata da lei per l’affitto della piccionaia. In realtà ora non è più una “piccionaia”. Quando Afra e Pietro l’avevano ristrutturata le aperture laterali erano state trasformate in enormi finestre, per cui ora la si sarebbe dovuta chiamare più correttamente “torretta”. Di una torre quell’appartamentino ha di sicuro la verticalità. L’hanno affittata a una giovane coppia, amici di amici, anche se poi lui s’è volatilizzato. Ha lasciato solo la bicicletta in cortile, chiusa bene, ad arrugginire. Lei lavora nella biblioteca cittadina e studia, anzi da anni scrive una tesi che non si decide a consegnare. Sembra una cui manchi forza d’animo, una che non sa che fare della propria vita.
– L’hanno massacrato, senza pietà hanno reciso tutti i rami, dico tutti, e adesso non c’è più niente, un tronco nudo e sghembo. Il terrazzo ora sembra troppo grande, quasi un deserto. Mette tristezza – aveva detto la ragazza, con l’assegno in mano, concitata, come raccontasse di un parente cui avevano amputato gambe e braccia e Afra, che alla pianta non aveva più pensato, aveva finito per essere travolta da quelle parole piene di dolore. Ora, affacciata alla finestra, misura l’assenza delle ombre che, anche d’inverno, i rami sinuosi proiettavano sul parquet, quell’ondeggiare di foglie, quel fruscio quasi impercettibile.
Più volte era stata tentata di ritrarre i grappoli viola sbocciati in successione in un acquerello. Da giovane dipingeva, quando frequentava l’accademia, ma poi non ne era seguito più nulla. Aveva aperto una piccola galleria d’arte moderna, poi i figli e la vita con le sue svolte. Il desiderio di prendere in mano i pennelli s’era affievolito poco per volta, fino a spegnersi quasi del tutto. Solo l’ondata profumata lilla pallido che compariva ad aprile, un’unica fioritura che pareva lo scoppio di un fuoco d’artificio riusciva a risvegliarle l’estro fin quasi a muoverle la mano verso il pennello. Immaginava flutti d’acqua e di pigmento che avanzavano e indietreggiavano sulla carta come quei grappoli lunghi mossi dall’aria che avrebbe dipinto solo come macchie di colore, senza contorni precisi, sfumature di violetto che s’annacquava fondendosi al verde giovane e fresco delle foglie destinate a sopravvivere sole per il resto dell’anno.
Riunite a gruppi di sette o di cinque, restavano a disegnare un soffitto vegetale con le loro nervature e, muovendo riflessi sui muri del palazzo, proteggevano dalla calura.
È per i colori che Afra ama le piante. Più volte si è figurata quel lilla nelle sue sfumature: avrebbe cominciato mescolando il rosso magenta con l’indaco, poi uno spruzzo di giallo, non citrino, giallo cadmio per non scadere nella tinta lavanda. Né lavanda né ametista: color glicine.
Per quei toni di colore lei si fa carico dei vasi in cortile: in inverno ciclamini ed erica, a primavera viole. Li pianta, li concima e li annaffia, in perenne guerra con un merlo che becchetta senza sosta nella terra dei vasi alla ricerca di cibo. È un solo uccello, o a lei pare sia sempre quello, che sembra quasi sfidarla mentre scava nella terra dissotterrando bulbi e radici.
Ora l’assenza del pergolato e tutto quel cielo vuoto le pesano sul petto o forse è il fatto di non essersene accorta che la ferisce. Ha avuto ben altri pensieri in quei giorni. Un tronco vecchio e solo, il disegno del mio prossimo destino: una donna scartata dalla vita.
Prova a scuotersi: niente vittimismo. Comincia a mettere ordine. Succede sempre così, quando è troppo confusa rassetta la casa, come per riorientare l’esistenza.
Sfiora le camicie del marito, in fila nell’armadio, le annusa per frugare nelle sue assenze, poi con gesto deciso le butta tutte sul letto ammonticchiate, con rabbia. Deve fare posto, farsi posto, allargarsi. Poi osserva il vuoto occupare il posto degli oggetti e la prende come un senso di nausea: – Non se ne parla, c’è una linea lunga che ci tiene legati, tornerà – dice a un’oscura ascoltatrice dentro di sé mentre ripone le camicie al loro posto.
Non è la prima fuga di Pietro, abbandoni più o meno lunghi giustificati dal lavoro, anche se Afra lo sa bene che c’è un’altra. Non una, più di una, ma una per volta. È fatto così, un farfallone. Poi torna sempre e lei se lo riprende.
Questa volta niente botulino. Non è che, tutte le volte che lui si mette con una più giovane, posso massacrarmi la faccia. Si invecchia e non si può farci nulla.
Pensa alla signora Bordoni del primo piano, una donna con la morte alle calcagna, al suo incedere lento e cauto, al profumo della sua lacca per capelli, alla sua voce tremolante, alla schiena curva. È diventata così fragile che pare sul punto di rompersi da un momento all’altro. Eppure anche lei ha corso, saltato, amato, desiderato. Mentre prova a immaginarsela ancora colma di vita e tenta di resuscitare la bambina che è stata, Afra realizza che, quando anche a lei accadrà di invecchiare, la cosa che più le mancherà saranno gli abbracci, il fatto che nessuno più la toccherà.
Dalla finestra della veranda lo vede planare sui ciclamini in picchiata.
– Merlo del cavolo, vattene, ci manchi solo tu oggi, vattene o ti spenno vivo – urla con tono acuto. Poi, imbraccia una scopa e corre di volata in cortile.
Vecchia sono vecchia, ma non sono scema. Annamaria Bordoni ha sognato il glicine quella notte e, al risveglio, lo ha raccontato al marito. Sono loro i proprietari del terrazzo, ampio territorio del glicine, lì hanno giocato prima i figli, poi i nipoti. Ora che sono cresciuti proprio tutti, quello spazio aperto resta vuoto: niente bambini, niente ragazzi, niente foglie.
Quell’arbusto centenario se ne sta andando, segue i balzi del tempo perché, la signora Bordoni ne è convinta, a lei non l’hanno raccontata giusta: non guarirà quella pianta, è ormai troppo vecchia per resistere. E Annamaria si sente fusa al destino di quell’albero solenne, come se una coperta di stanchezza ormai impedisse a entrambi di procedere oltre. Il suo corpo è corso avanti troppo alla svelta e lei non è ancora pronta.
Non avrei dovuto raccontarglielo, perché il marito nel sogno ha scorto tutta la sua fatica, la conosce così bene da vederle attraverso, fino a leggerle l’inconscio. Forse è per quello che ha fatto sparire le fotografie di famiglia, di quando erano giovani, non vuole vederla soffrire. Ma non serve cancellare i ricordi, si dice la signora Bordoni, mentre rovista nei cassetti alla ricerca di quelle foto che vuole rivedere al loro posto. Si infila un malandato giaccone e s’accomoda sulla poltrona di vimini del terrazzo a sfogliare il vecchio album di nozze rinvenuto nel comò. Quanti colori che da accesi si sono fatti, anno dopo anni, sbiaditi.
Chiude l’album, preda di una sorta di rancore. Ora vorrebbe un posto tranquillo, al riparo dai ricordi. Non ha senso aggrapparsi al passato. Un lieve tremito le muove il mento, mentre le sue dita nodose stringono i braccioli della poltrona.
Dopo il matrimonio erano venuti i figli, tre, l’ultima disabile: sindrome di Down. A lei si era dedicata per tutta la vita fino a quando, compiuti i quarant’anni, Monica era stata accettata in un istituto. Una scelta difficile, la più difficile che le fosse mai toccata. Alla fine, tra mille titubanze, l’aveva lasciata andare. – I figli, abili o disabili, devono fare la loro vita – avevano sentenziato le assistenti sociali e, incredibilmente, avevano avuto ragione. Monica fuori casa era rinata, aveva fatto amicizie, acquisito autonomia, aveva perfino cambiato taglio di capelli. Da allora il tempo aveva perso significato e la signora Bordoni non serviva più a nessuno e più invecchiava, e ora è invecchiata un bel po’, meno riusciva a capirci qualcosa del senso dell’esistere per poi morire. Devo essere contenta, Monica là è felice, si diceva, ma l’allegria non è cosa da vecchi. La vecchiaia si mangia i sentimenti e si diventa duri, egoisti. Alza lo sguardo, gli occhi smarriti: il glicine è sparito in un mistero che chiamano passato.
Teresa ha sentito un pianto sommesso provenire dal terrazzino confinante con il suo. S’è ritratta subito, per evitare imbarazzi. – Non preoccuparti, non è niente di grave – ha esordito così Giovanna, la vicina: viso scarno, occhiaie profonde. Era già magra e ora ha perso non pochi chili. E quella testa lucida come una biglia. – È la chemio – si giustifica – ma poi ricrescono. Stupidamente Teresa s’arrischia ad offrirle un bicchiere di prosecco, lo stesso che sta bevendo lei. Ma il vino con i farmaci non è una buona idea. Giovanna invece, dopo un attimo di perplessità, accetta: – In fondo peggio di così… Un bicchiere male non può fare, al massimo vomito, tanto mi tocca vomitare comunque. È per mio figlio che sono in pena, dodici anni sono pochi, un’età critica – e intanto le lacrime continuano a fluire. Lacrime che le bagnano il volto ma che sembrano non esprimere sofferenza, essere indipendenti dal sentire, semplicemente uno svuotarsi, lavarsi dentro senza fatica. Ride e piange, e pare quasi carina, una bellezza inquieta, sicuramente più simpatica di quanto Teresa avesse fino allora creduto. Non si percepisce più nel suo tono di voce quella freddezza che la rendeva distaccata.
Afferra per il gambo il calice pieno quasi fino all’orlo con attenzione estrema. Le sue dita paiono inerti, come rattrappite, faticano a distendersi, come fossero intorpidite dal freddo. Coglie lo sguardo della vicina e racconta di un farmaco ancora sperimentale, che sembra riduca le recidive della malattia. L’effetto collaterale è la “paralisi a frigore delle estremità”, come dicono i medici. E spiega che è sufficiente, per chi lo assume, afferrare un oggetto fresco, estrarre qualcosa dal frigorifero perché le dita si paralizzino e non si riesca più neppure ad allacciarsi un bottone. – Dimmi tu se queste falangi legnose non ricordano i rami rinsecchiti del nostro rampicante – dice con tono cordiale, quasi leggero, come se si conoscessero da anni e ride di gusto ancora piangendo, e assicura che è un problema passeggero, che le sue mani torneranno sane. Teresa scorge il lampo di un dubbio attraversare lo sguardo di Giovanna: neppure lei ci crede, ma ci prova, tiene duro.
– L’unico modo per mangiare un elefante è un boccone alla volta. Devo fare così, pensare in piccolo, affrontare i giorni uno per uno, fare finta di niente e andare avanti. Il mondo è pieno di gente che continua a cercare di farcela – dice come per convincere sé stessa.
Teresa vorrebbe succhiare un po’ del coraggio di quella donna che ha individuato la traccia del suo sentiero e la segue con tenacia, con convinzione, mentre la sua vita sembra insabbiata al punto di partenza, una vita in perenne fase di definizione che non si decide a mettere le sue carte in tavola. Resta lì, piena di speranze luccicanti, esitante sulla crosta dei giorni. Forse sono io a non essere ancora attrezzata per la vita vera. Ma non ci sarà un’altra vita e il futuro già mi si sta chiudendo alle spalle.
Vive nell’involucro provvisorio della piccionaia, dove lo sguardo ha l’agio della distanza, in attesa. O forse, nell’armatura di quella casa che si stringe addosso, rinunciare a provarci è diventata per lei un’abitudine. Fa solo lo stretto necessario, nulla di più, nulla di meno.
Il cielo ancora di un grigio elettrico, la primavera stenta quest’anno. Di Pietro ancora nessuna notizia. Afra sperpera le serate fra film e documentari, i pensieri ridotti ad ansia. Di leggere non se ne parla.
Quando è stato che il destino ha deciso che la mia vita dovesse prendere questa piega? Poi prova a scrollarsi di dosso la voglia di frignare e autocommiserarsi. Sono io il limite per me stessa, pensa mentre indossa una maglia ed esce. Non che sappia dove andare, è quasi buio e appuntamenti non ne ha. Si ferma in cortile a controllare i vasi: anche questa volta mi ha fregata, pensa mentre raccatta la terra che il merlo ha buttato sulle beole. E la incontra: cammina incerta, lenta come un granchio, gli occhi smarriti. Pare una barca attraccata a un estremo dell’esistenza.
– Dove va da sola a quest’ora signora Bordoni?
La vicina le punta gli occhi lacrimosi addosso, una certa audacia permane nel suo sguardo, come un’ostinazione giovanile.
– Avevamo finito il pane” – risponde un po’ sostenuta col suo timbro di voce sottile. Afra ci legge un rimbrotto, come se la vecchia le rinfacciasse che i più giovani credono di sapere tutto, si illudono che il mondo sia cominciato con loro.
Dalle scale arriva il saluto di Giovanna, una voce nuova, quasi gioviale, che non si accorda con il suo corpo tarlato. Al solito non è truccata, il suo viso avvizzisce, proprio come il tronco rugoso del glicine. Sulla pelle un colorito cereo, pare morta di freddo. Afra cerca un appiglio di conversazione per gentilezza, anche se quella donna la inquieta. Quando la incontra sente un disagio, una repulsione violenta, quasi che il contatto ravvicinato con lei fosse pericoloso, che la malattia potesse irradiarsi dal suo corpo per contaminarla.
– Giovanna, dovresti truccarti almeno un poco, sei verde.
La vicina sorride, non ce l’ha mai avuta la passione per il trucco. È verde per il freddo che la chemio le insinua nelle vene. Quando i farmaci cominciano a fluire è come se ogni funzione vitale rallentasse: la frequenza cardiaca, la pressione, la temperatura del corpo, tutto precipita verso il basso. Un’anticipazione della morte. Ma questo ad Afra non può raccontarlo. Non è pronta. Non è uno scherzo fare i conti con l’orizzonte che si sta chiudendo.
Anche la vecchia la osserva con i suoi occhi puntuti, le vene in evidenza sottopelle, le guance sprofondate nelle ossa. Nessuna compassione nel suo sguardo, anzi una sorta di invidia traspare dal paesaggio delle sue rughe: in fondo, anche se malata, Giovanna è una privilegiata. Di vecchiaia non si guarisce. Le grinfie scure del tempo non mollano e rubano i giorni che restano. Non c’è niente che non si consumi e lei, che ha superato più stagioni di quante possa ricordare, riesce a provare gelosia anche per giorni grigi, dolorosi, malati, per il flusso dei farmaci nel sangue.
Occhi che scandagliano il tronco, indugiano come in attesa di un miracolo. Perché giusto un miracolo potrebbe far gemmare un glicine a ottobre, anche se la pianta fosse in perfetta salute. Eppure pare che lo sperino, in qualche anfratto della mente, le donne del palazzo, per caso raccolte in cortile, vogliono credere che possa accadere: ispezionano il tronco in attesa di un presagio.
Giovanna soprattutto. Da quando è ammalata si è fatta quasi superstiziosa: in ogni evento legge una premonizione, perfino nei sogni, materiale di scarto subito archiviato, prima. È sfinita, eppure trascina le gambe per strada e si gode l’odore della pioggia che le sale dal naso, il colore del pelo di un gatto che attraversa la strada. Cos’altro mi sono persa? Quante cose ho smesso di notare, quanti dettagli che richiedono attenzione. E me ne accorgo solo ora che il mio corpo cade a pezzi, pensa mentre comincia a intuire come un rifiuto, un’avversione profonda verso la sua vita di prima, un ponte sul vuoto da attraversare. Non aveva mai pensato che ci fosse qualcosa di straordinario nel camminare, guardare, nel non fare nulla se non esistere. Non aveva mai pensato ci si potesse godere perfino una malattia che ti ruba i giorni. Vita e morte messe lì sui piatti della bilancia ora la obbligano ad avere coscienza di tutto. Non più deragliamenti per le miserie quotidiane, niente stress per quisquilie o ostinate ricerche di senso. Non c’è ragione quando la vita improvvisamente scarta, non c’è messaggio nella malattia, c’è il dolore e basta. Eppure, in qualche modo arcano, il corpo sa e insegna, se si ha la fortuna di sopravvivere.
Ora che ha ben più tempo di prima, si ferma spesso a chiacchierare in cortile con Afra intenta a dare la caccia al merlo ladro. La presenza di Teresa è variabile, imprevedibile. La signora Bordoni, che prima usciva di rado, ora che, dopo l’ultima caduta, si è dotata di un bastone, sembra reggersi meglio e si mescola al gruppo volentieri.
Oggi tutte e quattro sono lì, nel cortile della casa del glicine, il collo in estensione, gli sguardi alla ricerca di un segno di vita ispezionano le rughe del tronco mutilato, gli anfratti rinsecchiti.
– Forse là, proprio in alto, forse un accenno di ramo nuovo c’è – butta fuori di getto Afra e tutte a scrutare, a sperare. Teresa osserva preoccupata la signora Bordoni, appoggiata al suo nuovo supporto. Teme che guardare in alto le possa far perdere l’equilibrio, allora le si fa vicina, così come per caso.
Sulla testa di Giovanna nessun segno di ricrescita per ora. Afra ha smesso di truccarsi e, in fondo, sembra più giovane senza quegli strati di colore e le labbra rosso ciliegia.
Al rombo di un motore si spalanca il portone e una Triumph Spitfire verde bottiglia entra sgommando. Pietro, caschetto di pelle in testa, sorride senza un’ombra d’imbarazzo, sicuro di poter parcheggiare la preziosa macchina con cui ha partecipato alla Mille Miglia nel garage del palazzo, come vivesse ancora lì.
Afra sente gli occhi indagatori delle vicine in attesa: la puntano come fosse una preda. Lo sguardo saccente della vecchia Bordoni pare sfidarla, condannarla, o forse solo compatirla. Pietro ancora non è smontato dalla spider, attende che la moglie sollevi la basculante, un sorriso strafottente in faccia.
Lei in tuta, struccata, pallida, resta immobile, la faccia di gesso. Poi, d’improvviso il suo volto pare riprendere colore fino a diventare rosso fuoco e urla, urla con tutto il fiato che ha in corpo: – Vattene, questa non è casa tua, non è il tuo cortile, non puoi continuare così, a fare i tuoi comodi. Vattene, vattene che non ti voglio più vedere.
Il merlo sbatte le ali veloce e prende quota, il becco appuntito aperto e vuoto. Niente vermi. Oggi, nel computo calorico della sua dieta quotidiana, andrà sotto di proteine. Una risata fragorosa, incredibile per una donnina così minuta, sgorga dalla gola di Annamaria Bordoni. Una risata a cascata, incontenibile e contagiosa. Ridono tutte, ridono di gusto raccolte intorno a quella vecchia, a quel mucchietto d’ossa scosso dall’emozione, intorno alle radici del glicine ancora incredibilmente saldate alla terra.
Intrigante, una storia che si svolge fra un piano e l’atro, emozioni che salgono e scendono le scale nel quotidiano della vita cui, generoso, il glicine doma il suo profumo. Sembra di sentirlo…