Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi, il Mulino 2022 (pp. 172, euro14)
Un libro che vuole “dare conto di una doppia dinamica avvenuta negli ultimi decenni del ’900: un trasloco e una metamorfosi del potere”, l’affermarsi di poteri nuovi che oggi governano il mondo. E questo proprio mentre la guerra in Ucraina “si presenta come una forma di violenta irruzione, proprio nel cuore dell’Europa, del potere nella sua forma più arretrata”, tale da minacciare “la narrazione di un mondo interconnesso e pacificato” nel segno della globalizzazione. “Saranno i prossimi mesi e i prossimi anni – riconosce limpidamente l’autrice nella premessa – a stabilire quanto reggano le coordinate adottate in questo libro”. Tra le quali una constatazione fondamentale: lo “scivolamento [del potere] – dagli anni ’80, “in un mondo che mancava di infrastrutture fisiche e giuridiche per far funzionare un’economia globalizzata” – verso il privato e la coincidenza con forme finanziarie e tecnologiche.
Oggi il potere è dunque capace di disincarnazione e anonimato” (e spersonalizzazione ai confini della deresponsabilizzazione, verrebbe da dire pensando, ad esempio, alla comune esperienza di relazione con gli “operatori” telefonici), ed “è diventato soft, interstiziale, serpeggiante, ufficioso”, senza per questo dimenticare – all’opposto – la sua frequente tendenza ad assumere un volto ben preciso, a personalizzarsi – riportando alla ribalta addirittura vecchie forme di “potere carismatico”, o a coincidere con quanti (pochi) fanno parte di una élite ristrettissima di detentori di risorse finanziarie enormi. In ogni caso, questo potere sfuggente e separato si concretizza in un “nuovo capitalismo” globalizzato ostile all’economia politica keynesiana, presupposto di un ruolo decisivo degli Stati, e favorevole invece alla commistione fra capitalismo e politica grazie a privatizzazione e internazionalizzazione”. Molto spesso in nome della governance, “un termine dai contorni sfumati, che prevalentemente indica il diffuso coinvolgimento di privati in processi decisionali e regolativi su questioni di pubblica rilevanza”. Tutta un’altra cosa rispetto al government, non corrispondendo a un territorio prestabilito e dichiarato in carte ufficiali ma coincidendo piuttosto –in un quadro generale di “cultura anti-istituzionale” e populisticamente avversa all’intermediazione – con “un ‘teatro mobile’, che può scegliere di volta in volta il raggio della sua estensione e i soggetti da coinvolgere sulla base delle questioni in gioco”. Quello cui si è assistito è stato in realtà “un immane processo di spoliazione istituzionale, di privatizzazione del potere”, che ha portato a una situazione in cui “l’economico diventa politico, mentre il politico si contamina di modalità economiche, così come il mix pubblico-privato non cessa di riprodursi”, grazie anche all’assistenza dei grandi studi legali americani che dettano legge nel commercio del mondo globalizzato e all’inappellabilità delle valutazioni espresse dalle agenzie di rating, operanti – in aperto conflitto di interesse – in quello che si può definire come un “mercato della reputazione”, non solo di imprese e società finanziarie ma anche di Stati.
Se può consolare, Foucault aveva precocemente identificato il processo in corso come “un’autolimitazione della ragione di governo”, che è come dire della politica rispetto all’economia, o meglio, alla finanza: della politica intesa nella sua declinazione democratica, quella che prevede la visibilità dei poteri, non la loro mimetizzazione (magari ammantata della trasparenza ingannevolmente promessa dalle nuove tecnologie informatiche, da internet ai social network all’intelligenza artificiale, conditio sine qua non e allo stesso tempo fattore essenziale, e per nulla neutrale, della mutazione intervenuta negli ultimi decenni, di cui l’oligopolio delle società informatiche e il costituirsi di una “superintelligenza” transnazionale che ragiona sulla base di algoritmi sono appunto aspetti decisivi). Il potere pubblico, però, non si può dire si sia semplicemente rassegnato allo strapotere privato: se prima della globalizzazione “ricalcava lo schema di una sorta di ‘condominio mondiale’”, in cui ogni Stato appariva relativamente autonomo e chiuso in sé stesso, ma tenuto a riconoscere l’autorità di un “capo condòmino” in uno Stato egemone, economicamente e militarmente, capace di offrire protezione, un simile equilibrio è stato radicalmente messo in discussione dalla globalizzazione (oltre che dall’emergere di Stati quali, in primo luogo, la Cina), che ha imposto agli Stati – progressivamente esautorati di molte delle loro prerogative ma tuttora detentori di funzioni insostituibili, per quanto variamante strumentalizzate dal potere economico-finanziario – di aprirsi alla dimensione internazionale e di fare i conti, da un lato, con organizzazioni sovranazionali via via sempre più numerose e autonome nei loro poteri, forti e invasive per quanto informali sotto diversi aspetti; d’altro lato, con un sistema in cui gli Stati, anche i più potenti, sono costretti a cercare risposte a shock che si susseguono, dall’11 settembre alla crisi finanziaria del 2008, dalla pandemia alla guerra, senza dimenticare un sfondo sempre più affollato da eventi climatici estremi e dalle conseguenze largamente imprevedibili. E a complicare il tutto è il fatto che l’attuale “configurazione sistemica del potere”, in assenza di “sicuri riferimenti istituzionali”, appare “inconciliabile – al di là del suo carattere utopico – con un governo politico del mondo”: “la nuova bussola del mondo – questa la conclusione inevitabile – non è politica, è finanziaria e tecnologica”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.